Nell’ormai lontano 15 dicembre del 1791, la Costituzione degli Stati Uniti fu modificata con il più celebre dei dieci emendamenti che compongono il Bill of Rights, il Primo Emendamento appunto, che recita così: “Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione; o che limitino la libertà di parola, o di stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti”. Da allora la libertà d’espressione – intesa nel senso più ampio del termine, a partire dalla libertà di culto – è diventata una delle pietre miliari della società e poi della storia americana, un punto di riferimento per liberali, libertari o cittadini oppressi di tutto il pianeta. È in nome del Primo Emendamento, per esempio, che nel 1971 la Corte Suprema respinse il ricorso del presidente americano Richard Nixon che voleva impedire al New York Times di pubblicare alcuni documenti governativi secretati, gli ormai celebri Pentagon Papers. Di fronte al Primo Emendamento, anche il Presidente Nixon dovette inchinarsi. Ma la giurisprudenza attorno al Primo Emendamento, che va dalla religione alla libertà d’associazione, è talmente ampia e variegata da non poter essere qui sintetizzata. Certo è che il Primo Emendamento – alias: la libertà di pensiero e d’espressione – fa pienamente parte dell’American way of life, così come della civiltà liberale contemporanea.
LA CULLA DELLA LIBERTÀ D’ESPRESSIONE
Dunque, in che condizioni di salute è oggi il Primo Emendamento nel Paese che gli ha dato i natali, cioè negli Stati Uniti? Non se la passa tanto bene, dicono da anni i critici del “politicamente corretto”. I quali, in alcuni casi, sono accusati di faziosità e di eccessiva vicinanza alle idee dei repubblicani e dei conservatori (come se la libertà d’espressione potesse divenire il capriccio di una sola parte politica!). Adesso però anche la Brookings Institution, prestigioso think tank del campo liberal – cioè di sinistra, per gli standard americani – lancia un allarme: il Primo Emendamento, con la sua tutela a 360 gradi della libertà d’espressione, è sempre meno conosciuto dai giovani americani, e soprattutto è ritenuto sempre meno importante. A rivelarlo è una vasta ricerca demoscopica compiuta proprio dentro i campus dei college degli Stati Uniti.
LA GIUSTIFICAZIONE DELLA VIOLENZA CONTRO LE IDEE DIVERSE
L’autore del sondaggio, il ricercatore John Villasenor, ha chiesto agli intervistati se secondo loro il Primo Emendamento protegge il diritto di fare discorsi che possono essere considerati come “incitamento all’odio” (“hate speech”). La risposta corretta – lo anticipiamo per i lettori italiani – è “sì”. Il Primo Emendamento, per intenderci, protegge anche il diritto dei proverbiali “nazisti dell’Illinois” (cit. Blues Brothers) di sfilare in strada. Tuttavia soltanto il 39% degli universitari intervistati dalla Brookings Institution risponde che l’hate speech è protetto dal Primo Emendamento. Il 44% sostiene che non sia così.
Dopo il nozionismo (che evidentemente scarseggia), passiamo alle opinioni sulla libertà d’espressione. La seconda domanda della Brookings Institution è la seguente: “Un gruppo di studenti che si oppone a un ospite dell’università interrompe il discorso di quest’ospite urlando in maniera forte e ripetuta, in maniera tale che il pubblico non possa sentire l’oratore. Sei d’accordo o no nel definire ‘accettabile’ questo tipo di comportamento?”. Il 51% degli intervistati dice di ritenere accettabile questo comportamento. Ma non è finita qui. Il 19% degli intervistati, cioè uno studente universitario su cinque, sostiene che anche il ricorso alla violenza è “accettabile” nel caso si voglia impedire di parlare a un oratore con cui non si è d’accordo. Così non ci si stupisce quasi più se il 62% degli studenti americani ritiene che oggi sia “obbligatorio per legge” – per ogni associazione studentesca che organizzi un evento sul campus universitario – affiancare all’oratore che non ci piace anche un oratore che la pensa all’opposto. Ovviamente non esiste un tale obbligo di legge. Insomma, la concezione della libertà d’espressione degli attuali studenti americani pare oscillare tra la violenza e l’infantilismo. Non esattamente un bel vedere.
PERCHÉ CONTA (ANCHE PER L’EUROPA) CIÒ CHE ACCADE NEI CAMPUS AMERICANI
Perché sia importante indagare sullo stato di salute del Primo Emendamento negli Stati Uniti, e perché siano allarmanti questi risultati che arrivano dagli atenei americani, lo spiega con chiarezza lo stesso Villasenor. “Prima di tutto, perché i college e le università sono luoghi in cui il dibattito intellettuale dovrebbe fiorire. Questo però può avvenire soltanto se i campus universitari sono posti in cui la diversità di vedute è celebrata, e dove il Primo Emendamento è onorato nella pratica e non soltanto in teoria”. In secondo luogo, “ciò che accade nei campus universitari spesso prefigura tendenze più ampie nell’intera società. Gli studenti universitari di oggi sono gli avvocati, gli insegnanti, i professori, i politici, i legislatori e i giudici di domani”. Per chi fatica a immaginare un futuro in cui l’intolleranza verso tutto ciò che è ritenuto “hate speech” o “portatore d’odio” potrà diventare l’unico criterio di ammissibilità al foro pubblico, ricordiamo l’assurdo dibattito sull’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo e simili. Inoltre, conclude l’autore della ricerca demoscopica, “i punti di vista degli studenti sul Primo Emendamento sono importanti anche per un’altra ragione: gli studenti sono de facto gli arbitri della libertà d’espressione nei campus. I giudici della Corte suprema non si trovano all’ingresso dei campus, sempre pronti a saltar fuori e far applicare la Costituzione non appena il Primo Emendamento è messo in pericolo. Se una percentuale significativa degli studenti di oggi pensa che i punti di vista che essi ritengono offensivi debbano essere silenziati, allora quei punti di vista – effettivamente – saranno silenziati”. E dalla sponda europea dell’Atlantico ci permettiamo di aggiungere un ulteriore motivo di preoccupazione: molte delle tendenze culturali e ideologiche concepite nei campus a stelle e strisce, ormai dagli anni 60 dello scorso secolo, impiegano relativamente poco tempo ad attraversare l’Oceano e ad attecchire nel Vecchio continente. Perciò, a maggior ragione, è il tempo di dire alto e forte: “Libertà d’espressione, abbiamo un problema!”.