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Che cosa dice (e cosa fa capire) al-Baghdadi nel messaggio audio

Rompendo un silenzio prolungatosi per quasi un anno, il califfo Abu Bakr al-Baghdadi si rifà vivo con un messaggio audio considerato autentico dagli analisti americani. Risale al novembre scorso l’ultima volta in cui il leader dello Stato islamico fece diffondere un suo discorso, e da allora, tra conferme e smentite, si sono rincorse le voci della sua morte. Era stato il ministero della Difesa di Mosca, a giugno, a rendere noto che il comandante dei credenti era stato vittima di un bombardamento russo. Suscitando lo scetticismo dei militari Usa, che sostennero di avere le prove che l’uomo più ricercato del mondo fosse ancora vivo. Tra l’11 e il 17 luglio, fonti irachene si smentirono a vicenda, con la tv Al Sumaria che, citando fonti interne ad Isis, confermava la notizia russa e il ministero degli Esteri di Baghdad che, successivamente, negava. Il messaggio rimbalzato ieri nei canali Telegram del califfato dovrebbe chiudere la questione.

La direttrice di Site Rita Katz, esperta nel tradurre e decifrare le comunicazioni jihadiste, non ha dubbi che la voce che si riverbera su Telegram sia “quella di al Baghdadi, sulla base dei discorsi diffusi in precedenza”. Dello stesso avviso anche il portavoce dell’operazione Inherent Resolve, Ryan Dillon, per il quale la coalizione a guida americana non aveva mai acquisito “prove verificabili della sua morte” e pertanto “continua a supporre che al Baghdadi sia ancora vivo”.

Ferma restando l’autenticità della voce registrata, vi sono alcuni riferimenti nel discorso del califfo che ne accertano la natura recente. Al-Baghdadi parla della crisi tra Stati Uniti e Corea del Nord, con “i nordcoreani” che “hanno cominciato a minacciare l’America e il Giappone con la loro potenza nucleare”. Si citano i colloqui sulla Siria di Astana, il negoziato tra Russia, Iran, Siria e Turchia, nel quale si sta cercando una via d’uscita dalla guerra civile. Incontri da cui, secondo il califfo, “è emersa la debolezza degli Stati Uniti” perché questi “non hanno avuto alcuna voce nell’assegnazione dei nuovi territori tolti a Isis”. Altra prova cronologica è il riferimento alla battaglia di Mosul, cominciata lo scorso novembre e a seguito della quale al-Baghdadi si diede alla macchia, rifugiandosi plausibilmente nella capitale siriana del califfato Raqqa e, dopo che qui è cominciato l’assedio da parte delle forze curdo-arabe delle SDF sostenute dagli Usa, nella valle dell’Eufrate. “I nostri uomini di Mosul”, dice il califfo, “si sono rifiutati di consegnare la terra dove vigeva la sharia se non pagando un terribile tributo di sangue e l’hanno ceduta dopo circa un anno di combattimenti”.

Oltre alle notizie sulla sua morte, è la sconfitta jihadista a Mosul che deve avere indotto il capo del califfato a uscire allo scoperto, per infondere fiducia in un esercito ormai accerchiato da ogni lato. Baghdadi esorta infatti i mujaheddin a “dare prova di pazienza e resistere di fronte agli infedeli”, promettendo loro la vittoria finale in quanto “hanno la fede dalla loro parte” e perché “morte e dolore non ci piegano”. Invita quindi i “soldati dell’Islam” e i “seguaci del Califfato, ovunque si trovino” a “distruggere ogni tiranno, dentro o fuori” il territorio controllato dallo Stato islamico – riferimento agli “apostati di Al Jazeera”, la dinastia saudita che secondo la dottrina dell’Isis usurpa la custodia dei due luoghi santi dell’islam, Mecca e Medina. C’è spazio anche per un monito agli “americani, i russi e gli europei”, che “sono terrorizzati dagli attacchi dei mujaheddin”, altro nesso con l’attualità.

Secondo Rita Katz, il nuovo messaggio di al-Baghdadi ha enorme valore in quanto “dà energia alla comunità globale dell’Isis” ed è “qualcosa di molto necessario di fronte alla grande perdita di territori” subita dal gruppo. Un segno di disperazione o del desiderio di rivalsa? Bisogna tenere conto che la sconfitta del progetto territoriale dell’Isis è ormai imminente, ma la caduta del califfato sotto i colpi delle due coalizioni che gli si oppongono – quella a guida russa e l’altra capitanata dall’America – sarà il preludio non del tramonto ma di un’evoluzione del movimento jihadista, che da formazione statuale si trasformerà da un lato in forza di insurrezione contro il ricostituito potere di Iraq e Siria e, dall’altro, in gruppo terrorista che continuerà a sferrare colpi in Occidente. Inoltre, la sua influenza continua a farsi avvertire nei territori in cui è riuscito ad infiltrarsi negli ultimi tre anni. A partire dalla Libia, dove la settimana scorsa gli americani sono stati costretti a effettuare degli strike preventivi finalizzati a colpire la divisione locale dell’Isis, che sta rialzando la testa dopo la caduta l’anno scorso della roccaforte di Sirte. Per passare poi, dall’altra parte del globo, alla perdurante battaglia di Marawi nelle Filippine, dove un gruppo islamista alleato dello Stato islamico continua a respingere i tentativi dell’esercito regolare di scacciarlo.

La guerra al jihadismo globale, insomma, non è finita. E il califfo al-Baghdadi è ancora in sella.



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