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I curdi, il referendum e i veri rapporti fra Erdogan e Barzani

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Passata l’ondata di emozione e di enfasi davanti a un evento che, sulla carta, si può ben considerare storico, adesso resta da vedere non solo cosa rimarrà di questo referendum, vinto con un risultato così schiacciante che il termine plebiscitario sembra perfino riduttivo, ma anche come si regoleranno tutti gli Stati che, direttamente o indirettamente, si dovranno relazionare con questa nuova nazione. Fra questi c’è anche la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, che si trova sostanzialmente a dover fronteggiare tre situazioni: le reali intenzioni di Massoud Barzani, la reazione del Pkk e quella della popolazione più nazionalista.

La prima, dalla quale dipendono le altre due, è cercare di capire quali siano le intenzioni di Massoud Barzani. Quella ufficiale dovrebbe essere fare nascere uno Stato curdo a tutti gli effetti, riconosciuto dalla comunità internazionale e che potrebbe ispirare progetti analoghi alle altre parti di questo popolo, sparso in 4 Stati diversi e che è tutto fuorché un monolite. Ma c’è anche una seconda lettura, meno immediata, ossia che Barzani abbia usato il referendum per consolidare il suo potere e distinguersi come l’unico protagonista possibile dell’indipendenza curda. E questo per Erdogan sarebbe un vantaggio, perché un Barzani garante del processo di creazione del nuovo Stato significherebbe automaticamente mettere fuori gioco gruppi curdi ben più ostili al presidente turco e che non amano nemmeno il primo presidente del neonato Stato. Non dimentichiamoci, infatti, che nei mesi scorsi fu proprio Barzani a cacciare le frange più bellicose del Pkk dai territori del Nord Iraq ed è sempre Barzani che da 10 anni a questa parte tesse una paziente tela per avere i migliori rapporti possibili con la Turchia, unica via di uscita per poter fare uscire in modo indipendente il petrolio dal Paese.

Se quindi con lo Stato del Kurdistan alla fine potrebbe non cambiare nulla, se non le tensioni di rito e qualche manovra militare al confine, dal punto di vista interno il presidente turco è meno tranquillo. Il problema principale è sempre il Pkk, che potrebbe riprendere la sua lotta armata in modo ancora più violento, portando scompiglio nel Paese, ma a quel punto cementando anche la leadership di Recep Tayyip Erdogan, che proprio sull’unità nazionale e linguistica ha puntato molto del suo messaggio politico degli ultimi anni.

Senza contare che una recrudescenza della lotta armata del Pkk e un nuovo periodo di instabilità interna, dopo il ricordo dell’anno-incubo del 2016, porterebbe Erdogan a ergersi quale unico garante della pace e dell’ordine nel Paese. Atteggiamento ancora più utile se si conta che nel 2019 in Turchia si vota e il presidente cercherà la riconferma alla carica più alta dello Stato. Il rischio, è che la situazione gli sfugga di mano, ma, a fronte di un Pkk sempre più belligerante, c’è un partito curdo indebolito dalle sue purghe e dove i leader più carismatici sono in carcere e con scarse speranze di uscire a breve.



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