Più che un iter, come viene chiamato ricorrendo al solito latino il percorso parlamentare dell’ennesima riforma della legge elettorale cominciato alla Camera, quello del Rosatellum – traduzione anch’essa in latino, seppure maccheronico, della proposta che porta il nome del capogruppo del Pd Ettore Rosato – sembra un gioco al lotto. Dove si danno i numeri scommettendo che vengano estratti e premino chi li ha giocati.
Per cominciare i tre numeri su cui si scommette di più sono, in ordine crescente, il 3, il 36 e il 64: il 3 come la percentuale di voti per l’accesso alla distribuzione dei seggi parlamentari, uguale per Camera e Senato, a quanto pare: il 36 pari alla percentuale dei seggi da distribuire col sistema maggioritario a collegio uninominale, che una lista o una coalizione propone stampandone il nome sulla scheda perché l’elettore lo possa riconoscere bene; il 64 pari alla percentuale dei seggi da distribuire invece col sistema proporzionale, cui le liste – anche quelle coalizzate – concorrono singolarmente con listini rigorosamente bloccati, non si sé ancora capito bene di quanti nomi esattamente, eletti nell’ordine in cui i partiti li hanno collocati, con la stessa discrezione o insindacabilità, come preferite, con cui gli stessi partiti, da soli o insieme, hanno proposto agli elettori, o imposto, come preferiscono dire altri, i candidati dei collegi uninominali.
Messe così le cose, i capi dei partiti – tutti indistintamente – dovrebbero essere contenti perché, da soli o in compagnia, a seconda dei casi e della loro volontà, candidano e fanno eleggere o bocciare chi vogliono loro. E invece non tutti i partiti, e i rispettivi capi, hanno esultato all’annuncio del Rosatellum.
Giorgia Meloni a nome dei suoi Fratelli d’Italia n’è rimasta addirittura schifata, dissociandosi una volta tanto dal segretario leghista Matteo Salvini.
Beppe Grillo nei suoi ultimi giorni apparenti di dominio assoluto nel Movimento delle 5 Stelle, in attesa che ne prenda il posto, sempre apparentemente, l’aspirante a Palazzo Chigi Luigi Di Maio, vorrebbe fare del Rosatellum quello che ha detto del giornalismo italiano: mangiarlo per poterlo poi vomitare.
Non vi parlo poi della reazione dei notissimi e collaudati signor No della sinistra guidati da Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani. Che reciterebbero alla perfezione la parte la tragicommedia di Eduardo De Filippo del Presepe in casa Cupiello. “Non mi piace”, scriveva e faceva dire Eduardo all’impertinente bastian contrario.
I signor No di sinistra e di destra sono convinti che il Rosatellum, come ha osservato Giannelli nella solita divertente vignetta sul Corriere della Sera, sappia di un tappo col volto di Silvio Berlusconi, ma anche, secondo altri, di Matteo Renzi. I due avrebbero deciso di farsi una legge su misura per fingere di volere le coalizioni, come molti li spingono all’interno dei loro partiti o schieramenti, ma in realtà sapendo e agendo perché nessuno vinca le elezioni, e loro possano riprendere libertà piena d’azione dopo la proclamazione degli unitili risultati, sino ad accordarsi per l’ennesima edizione delle cosiddette larghe intese.
Eppure sul Giornale di famiglia Berlusconi lascia che si dubiti – titoletto in prima pagina con sigla misteriosa – della sua effettiva e convinta adesione alla nuova riforma, per la quale magari a scrutinio segreto egli disporrà che i suoi parlamentari votino rovinosamente un po’ contro e un po’ a favore, magari solo per togliersi poi la soddisfazione di smentire il solito Marco Travaglio.
Quest’ultimo sul Fatto Quotidiano, tanto per non cambiare avversari o bersagli, ha titolato e sentenziato: “Renzi fa una legge elettorale ad personam per Berlusconi”. E lo farebbe anche stupidamente perché, pensando di sbattere a destra l’ex presidente del Consiglio con i collegi uninominali da negoziare col vorace Salvini, e di insidiargli così un po’ di elettori moderati, non si renderebbe conto della sicura vittoria del centrodestra. All’interno del quale poi il potere metterebbe tutti d’accordo attorno ad un compromesso più o meno onorevole sul problema della cosiddetta premiership: un termine che prendiamo una volta tanto dall’inglese e non dal latino.