Ci sono quasi 300 CEO di grandi aziende americane nell’high-tech sul piede di guerra con il presidente Donald Trump. Non parliamo di imprenditori qualunque, ma di una lista che comprende pesi massimi come Mark Zuckerberg (nella foto) di Facebook, Sundar Pichai di Google, Jeff Bezos di Amazon, Brad Smith di Microsoft, Devin Weing di eBay. E poi ancora Marry Barra del colosso General Motors, Alfred Kelly di Visa e Reed Hastings di Netflix.
Le loro firme figurano nella lettera aperta in cui chiedono a Trump di salvare il Deferred Action for Childhood Arrivals (DACA), un ordine esecutivo di Obama che oggi permette a quasi 800.000 giovani immigrati senza documenti di studiare negli States. A guidare la rivolta c’è Zuckerberg, che ha pubblicato la lettera sul sito della fondazione Fwd.us (Forward.us), da lui creata nel 2013 per promuovere una riforma sull’immigrazione. In un post su Facebook di mercoledì, il guru della Silicon Valley ha scritto che “questi sognatori hanno un amore speciale per il nostro paese perché non possono dar per scontato di vivere qui”, chiedendo “un governo che protegga i sognatori”.
“Come imprenditori e leaders del business, siamo preoccupati dei nuovi sviluppi sulle politiche migratorie che minacciano il futuro di giovani immigrati senza documenti portati in America da bambini” scrivono i CEO al Tycoon. Preferiscono non chiamarli immigrati, ma “dreamers”, sognatori, i ragazzi che, qualora passasse il DACA repeal, potrebbero trovarsi in un limbo, perché non conoscono un altro paese al di fuori degli States dove sono cresciuti e di cui pure non fanno parte. “Se non agiamo ora per preservare il programma DACA, tutti i 780.000 giovani lavoratori perderanno la possibilità di lavorare legalmente in questo paese, e ognuno di loro sarebbe a rischio deportazione.”.
Per rincarare la dose, si affidano al rapporto del centro American Progress (non proprio bipartisan, perché fondato nel 2003 fedelissimo di Hillary Clinton John Podesta), e a uno studio dell’Immigrant Legal Resource Center (ILRC), secondo cui l’economia americana “perderebbe 460,3 miliardi di dollari dal PIL e 24,6 miliardi in contributi in Sicurezza Sociale e assicurazione sanitaria”.
Non è la prima volta che il mondo dell’high-tech americano punta il dito contro il nuovo presidente. A gennaio l’ultra-liberal Silicon Valley tuonò contro il Muslim Ban che avrebbe impedito ai cittadini provenienti da alcuni paesi di ottenere una VISA per entrare negli USA. Ma è la prima volta che così tanti CEO si uniscono in un gruppo di pressione organizzato contro la Casa Bianca.
Il DACA è stato presentato il 15 giugno del 2012 dall’allora ministro dell’Interno di Obama Janet Napolitano. L’ordine esecutivo concede agli immigrati al di sotto dei 31 anni, che abbiano studiato e siano giunti in America prima dei 16 anni, un permesso di soggiorno di 2 anni rinnovabile e la possibilità di lavorare. Il motivo per cui i CEO levano oggi le barricate è lo stesso di gennaio: la Silicon Valley ha un disperato bisogno degli immigrati. Uno studio del 2016 della National Foundation for American Policy (NFAP) ha rivelato che di 87 startup americane valutate più di un miliardo di dollari, 44 (51%), per un valore totale di 168 miliardi di dollari, sono state fondate da immigrati.
Pur avendo continuamente tirato bordate al DACA durante la campagna presidenziale, Donald Trump, mormorano alti ufficiali di Capitol Hill, sarebbe particolarmente combattuto sul futuro dei dreamers. Il Tycoon non aveva fatto mistero delle sue lotte interiori in una conferenza stampa del 16 febbraio. “Il DACA è un argomento molto, molto difficile per me” aveva confessato ai giornalisti, “io amo questi bambini, amo i bambini, ho figli e nipoti e trovo molto duro fare esattamente quel che la legge richiede di fare, sapete, la legge è dura”.
Adesso Trump si trova a combattere una lotta non più solo interiore. Schiacciato in una morsa fra i CEO più potenti di America e i repubblicani di ferro che minacciano ritorsioni qualora resti in piedi la creatura di Obama. Con i primi sembrerebbe schierarsi l’influente capo di gabinetto John Kelly, mentre fra i secondi spicca il consigliere politico Stephen Miller e un gruppo di agguerriti procuratori di 10 stati a guida repubblicana trascinati dal procuratore del Texas Ken Paxton.
Inviando una lettera al procuratore generale Jeff Sessions hanno chiesto a Trump di rescindere il programma. Si vocifera di una deadline non ufficiale fissata dai procuratori: se entro il 5 settembre Trump non ha decapitato il DACA, lo faranno loro portando la vertenza in tribunale.