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Trump ha un’altra grana: come gestire la cattura di un cittadino americano che combatteva per l’Isis

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Martedì 12 settembre le forze della coalizione curdo-araba che combatte lo Stato islamico per conto degli americani in Siria hanno catturato un particolare combattente dello Stato islamico: si tratta di un cittadino statunitense che si erano unito alle forze del Califfato. Le Sdf (Syrian Democratic Force, è il nome della milizia creata dagli Stati Uniti per evitare un elevato coinvolgimento on the ground) hanno consegnato il prigioniero alle forze speciali americane che sono embedded con loro come advisor militari. Il primo a dare la notizia è stato il Daily Beast, che ha subito ottenuto “non-smentite”, che significano conferme, da parte del dipartimento di Stato e dal Pentagono: “Il cittadino americano viene detenuto legalmente dal personale del Dipartimento della Difesa come un combattente nemico noto” ha dichiarato poi al sito Eric Pahon, capo portavoce della Difesa.

COSA FARE?

Per la Casa Bianca la situazione (ri)apre la via a un aspetto tecnico, ma più che altro politico, piuttosto delicato: cosa fare dei combattenti dello Stato islamico con cittadinanza americana catturati sul campo di battaglia? Innanzitutto, assicura il dipartimento di Stato, sarà trattato secondo le regole umanitarie: come precondizione per il sostegno della Coalizione, le Sdf e l’esercito iracheno (le forze di terra sostenute da Washington contro l’IS) si sono dovute impegnare a rispettare le leggi internazionali e le leggi di guerra (con scivoloni segnalati dalle ong per il trattamento dei baghdadisti e a volte dei residenti dei territori liberati, ma è evidente che in questa circostanza la nazionalità del prigioniero ha un peso).

LE DUE VIE

Il cittadino americano al momento non è stato identificato, e si troverebbe sotto la custodia dei soldati americani in territorio ostile. Ma non si sa dove, e questo crea già la prima problematica, perché la Croce Rossa internazionale in tale situazione non può effettuare le ispezioni – ufficialmente gli americani non hanno basi in Siria, perché la loro presenza non ha il sostegno formale del governo di Damasco, e dunque non potrebbero ospitare prigionieri. L’aspetto centrale è però il dopo: che fine farà? Davanti ci sono due opzioni: la via del giudizio militare, incolpandolo di crimini di guerra e tenendolo in custodia in un carcere speciale (nel caso Guantanamo con modifiche sula possibilità di incarcerare americani?); oppure la strada del tribunale civile. Tertium non datur, a meno di rischiare situazioni particolari: un esempio tra i tanti, quello di un terrorista somalo catturato in una delle incursioni che le forze speciali americane fanno contro il gruppo terroristico Shabab e tenuto per un paio di mesi sotto interrogatorio duro nelle stive della “USS Boxer”.

PRECEDENTI

La via civile è stata seguita recentemente dall’amministrazione Obama nel caso di Mohamad Jamal Khweis, baghdadista arresosi a marzo 2016, pentitosi, e finito con due accuse per terrorismo davanti a una corte in Virginia (dove viveva). Barack Obama voleva evitare trattamenti disumani ai prigionieri di qualunque natura, per questo, ad esempio, ha via via ristretto l’uso di Guantanamo (Obama in realtà voleva chiuderlo, ma il Congresso si è sempre opposto); tra le incoerenze delle sua presidenza, però, la decisione più estrema presa su un terrorista di origini americane: l’uccisione mirata, con un Hellfire sparato da un drone in Yemen, del predicatore qaedista Anwar al Awlaki nel 2011.

LO SCERIFFO TRUMP…

La gestione del trattamento del baghdadista americano catturato dai curdi non è una questione tecnica. Il peso politico è grosso, il rimbalzo pure: Trump ha molto calcato sul suo ruolo come sceriffo contro il terrorismo – per esempio, venerdì, dopo l’attentato di Londra, ha rimproverato Scotland Yard che a suo dire doveva essere più “proattiva”, ossia anticipare le mosse dei terroristi, creando una specie di caso diplomatico con gli inglesi che gli hanno risposto infuriati. In campagna elettorale ha più volte detto di essere favorevole ai metodi d’interrogatorio spinto (per esempio: il waterboarding, che lo avrebbe voluto ancora più duro) per tirare fuori informazioni dai prigionieri. Metodi che le associazioni umanitarie considerano torture, e che sarebbe davvero problematico se si venisse a sapere della loro applicazione a un cittadino americano. Anche il capo della Cia Mike Pompeo è su posizioni analoghe, anche se più edulcorate, e il segretario alla Giustizia, Jeff Sessions, fu uno dei nove senatori che votò contro a una legge del 2015 che vietava all’esercito l’uso delle torture per via ufficiale.

… E I PROBLEMI DELLA CASA BIANCA

Ad agosto dello scorso anno, quando la corsa elettorale infuocava, Trump ha annunciato la sua volontà di riaprire le porte di Guantanamo. Ora succede che davanti alla peggiore delle esigenze che poteva trovarsi davanti  – il trattamento di un prigioniero di guerra con passaporto americano –, la Casa Bianca dovrà decidere. Da un lato, seguire lo status quo obamiamo e prendere la via del processo civile, col rischio di sollecitare la protesta della sua base elettorale che già si trova a dover digerire la bozza d’intesa fatta dal presidente con i leader democratici su questioni legate all’immigrazione (nota: per la base trumpiana immigrazione e terrorismo sono due elementi non troppo distinguibili). Dall’altro firmare un ordine esecutivo per rimettere in piena funzione Guantanamo – costi compresi – tirandosi contro le proteste di decine di organizzazioni per i diritti umani, aggravate dal fatto che a finirci dentro sarebbe un cittadino americano – gli verranno negati principi base della costituzione, si dirà – e questo richiederebbe una particolare eccezione all’utilizzo precedente, che Trump aveva ventilato in campagna elettorale e in una bozza di ordine esecutivo di riapertura finita a gennaio sulla stampa.

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