In un’Italia che oggi non c’è quasi più, un Paese forse un po’ ingenuo ma che sapeva guardare con ottimismo al futuro, l’Italia del boom economico e della ricostruzione, imparare un mestiere significava andare a bottega. Gratuitamente. Non esisteva allora alcun sistema strutturato e regolamentato, il trasferimento del “saper fare” artigianale avveniva per via spontanea, era regolato dai ritmi e dalle esigenze quotidiane della produzione, e il mestiere, come dicevano gli anziani, bisognava “rubarlo con gli occhi” (oggi diremmo che la formazione era solo on the job). Venne poi l’avviamento professionale, che richiedeva pur sempre un periodo di praticantato (ovviamente non retribuito) in bottega o in azienda, fondamentale per apprendere le conoscenze di base (oggi le chiamano soft skills) su cui si regge il mondo del lavoro.
Il “miracolo italiano”, la trasformazione di un Paese prevalentemente agricolo nella settima potenza economica del mondo, nasce e si sviluppa su questo sfondo culturale e antropologico. Qui vanno ricercate le ragioni del successo di tante imprese che in quegli anni si affacciarono sui mercati internazionali, facendo del made in Italy un marchio globale.
Di quell’Italia volenterosa e poco incline al lamento che cosa resta? Poco, forse nulla. Le manifestazioni studentesche della settimana scorsa contro l’alternanza scuola lavoro, una delle innovazioni inserite all’interno della legge 107 del 2015 (la Buona Scuola), rappresentano un pessimo segnale. Un po’ come protestare contro il proprio futuro. In un tweet che ha fatto discutere, non a caso ripreso da un corsivo di Dario Di Vico sul Corriere della Sera di domenica scorsa, il segretario generale dei metalmeccanici della Cisl Marco Bentivogli non è stato tenero nei confronti degli studenti che hanno sfilato in piazza inalberando slogan come “siamo studenti, non operai”: “Piccoli e snob radical chic monopolizzano i movimenti studenteschi contro il loro futuro. Chiedano scusa agli operai che a differenza di loro sanno quanto paghiamo gli anni di ritardo sull’alternanza studio-lavoro” .
La protesta aveva in effetti il sapore del revival sessantottesco, una stagione che alla scuola non ha lasciato in eredità grandi conquiste, anche se nelle incombenti celebrazioni del cinquantennale in molti sosterranno il contrario.
Per il momento non resta che constatare che il “vietato vietare” si è reincarnato mestamente nel “vietato lavorare”, e che pure il legame tra movimento operaio e studenti, forse il meno effimero dei lasciti di quegli anni bollenti, è stato reciso nel nome del narcisismo generazionale (il fatto poi che tra i manifestanti vi fosse qualche sindacalista non contraddice, anzi conferma l’assunto). Torna alla mente la famosa poesia con cui Pasolini stigmatizzò “il sacro teppismo” degli studenti universitari che a Valle Giulia diedero l’assalto alla polizia nel marzo del ’68, figli di papà che bastonavano i figli del popolo in divisa. Oggi il contesto politico e sociale è (per fortuna) diverso, la violenza non c’è, ma sopravvivono i cascami di quell’ubriacatura ideologica.
Non sono sfiorati nemmeno dal dubbio, i nostri nipotini del ’68 e i loro maitre a penser, che l’alternanza scuola-lavoro sia in realtà una cosa serissima. Don Milani, che con la sua scuola di Barbiana ne è stato in un certo senso un sostenitore ante litteram, gli avrebbe fatto una lavata di testa delle sue.
Purtroppo in casi del genere emerge uno dei tratti caratteristici del carattere nazionale, il conformismo politico e ideologico che alligna trasversalmente in ogni strato della società. E il conformismo, si sa, è l’anticamera della malafede. Come definire altrimenti l’atteggiamento di chi, strumentalizzando i casi di malfunzionamento che certo hanno contraddistinto l’esordio dell’alternanza scuola-lavoro, da questi deduce che la riforma è una gigantesca operazione di redistribuzione dai poveri ai ricchi, cioè dai poveri studenti sfruttati alle imprese?
Amplificare la portata del caso singolo per colpire il principio è un vecchio trucco della propaganda politica da cui l’esperienza dovrebbe mettere in guardia. Ma non è così. In realtà dietro molte delle critiche che si sono levate anche da tribune autorevoli si scorge il pregiudizio elitario che da decenni grava sul sapere tecnico-scientifico.
Di questo pregiudizio ha dato un saggio significativo sul Corriere della Sera Massimo Gramellini, (in foto), ironizzando sugli studenti di un liceo scientifico di Ravenna che hanno scelto di dedicare il loro tempo a servire hamburger e patate fritte ai tavoli di McDonald’s. Ora, a parte alcune considerazioni un po’ fuori dal tempo sulle multinazionali cattive e le trattorie familiari buone (Davvero è così? Davvero la trattoria sotto casa è un modello di virtù fiscale e contributiva che sacralizza la dignità del lavoro al cospetto dello spirito predatorio delle multinazionali?), il pezzo forte del ragionare di Gramellini è che non vi è alcun “nesso tra gli studi scientifici e la cottura di un hamburger”. Una prova forte, talmente forte che, come si dice in gergo giuridico, prova troppo, e dunque risulta falsa. Le capacità professionali di una persona non si misurano solo sul suo bagaglio di nozioni tecniche, bensì anche su una serie di attitudini di fondo al lavoro che solo con l’esperienza sul campo si possono maturare (le soft skills di cui dicevamo all’inizio).
I ragazzi che escono da scuola – questa è la verità – non sanno fare nulla. Certo, hanno appreso delle nozioni, ma neppure nel caso degli studi tecnici queste nozioni sono immediatamente applicabili: è sempre stato così ed oggi lo è ancora di più, se solo si pensa alla velocità con cui una tecnologia nuova diviene obsoleta.
Dunque friggere le patatine da McDonald’s o fare il cameriere può rivelarsi molto utile: ad imparare a rispettare gli orari, a confrontarsi con gli altri (il lavoro in team), a maturare quel senso di responsabilità e disciplina senza il quale nessuno sforzo dà frutto.
Aggiungiamo che se un domani i ragazzi del liceo scientifico che oggi friggono le patatatine da McDonald’s diverranno dei manager, quell’esperienza giovanile tra i tavoli di un fast food potrebbe aiutarli a comprendere meglio le condizioni dei lavoratori che si troveranno a dirigere.
La Germania, con tutte le differenze rispetto al nostro Paese, da tempo ha investito su un sistema di alternanza scuola-lavoro, il duale ausbildung, che ha l’obiettivo di permettere allo studente-lavoratore di acquisire le competenze necessarie a svolgere un’attività professionale qualificata. A quindici anni, lo studente tedesco deve scegliere: proseguire gli studi tra i banchi di un liceo generalista oppure partecipare al sistema duale di formazione che li prepara al lavoro. Finalmente anche da noi, grazie all’alternanza scuola-lavoro, questi due mondi non saranno più incomunicabili. Ci vorrà un po’ per mettere a punto l’intero progetto, non solo sotto il profilo normativo ma soprattutto sotto quello della mentalità necessaria a cambiare l’approccio al lavoro. Tuttavia il fatto che il 44% del mezzo milione di studenti che l’ha sperimentata si dica soddisfatto dell’alternanza dimostra che la direzione è quella giusta.