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Come l’Italia può progettare il suo futuro. Parla Delzio

Francesco Delzìo

L’Italia deve tornare a pensare in grande. O, quantomeno, a immaginare il suo futuro senza perdersi nella logica del giorno per giorno, il cui principale effetto è di paralizzare il sistema e di imbrigliare le energie più dinamiche e sane della società.  Ne è convinto l’executive vice president di Atlantia e Autostrade per l’Italia – e fondatore e condirettore del master in Relazioni istituzionali, Lobbying e Comunicazione d’impresa della Luiss Business School – Francesco Delzio, che Formiche.net ha intervistato a margine della quinta edizione del Forum del Public Affairs. Una conversazione nella quale Delzio è andato dritto al punto: “Manca una visione Paese di cui sentirsi partecipi“. E le responsabilità, in larga parte, sono da attribuirsi alla politica.

Qual è il limite principale su cui la politica dovrebbe lavorare?

Mi pare innanzitutto che vi sia una crescente debolezza, anche dal punto di vista delle regole. Basta guadare questa nuova legge elettorale, il cosiddetto Rosatellum bis: è vero che migliora il quadro derivante dalle due sentenze della Corte Costituzionale sul Porcellum e sull’Italicum ma, purtroppo, è assai probabile che il giorno dopo le elezioni non sarà in grado di garantire né una maggioranza parlamentare né, quindi, un governo.

In che senso manca una visione Paese?

C’è una scarsissima capacità di proposta: con una battuta, potremmo dire che la politica ha rinunciato a sognare. Ma ciò, per la verità, succede già da molto tempo: dalla fine del sogno europeo inseguito dall’Ulivo e di quello berlusconiano della libertà e della liberazione delle migliori energie del Paese.

Emmanuel Macron in Francia ha appena nominato una commissione pubblica – di cui farà parte anche Enrico Letta – con il compito di riformare lo Stato. Perché da noi non esistono iniziative del genere?

Perché siamo schiacciati sulla quotidianità e sull’ordinaria amministrazione. Ma ciò non ci consente di coltivare grandi ambizioni e grandi progetti che nascono necessariamente da una visione d’insieme pubblica, nella quale poi possa inserirsi anche il contributo delle aziende private. A mio avviso si tratta di un grande limite della politica italiana.

E adesso?

Dobbiamo confidare che la campagna elettorale renda il campo da gioco più ampio e meno asfittico. E, soprattutto, che non sia schiacciata sull’interesse quotidiano ma che abbia, al contrario, una proiezione di medio-lungo termine. Com’è successo peraltro in Francia, dove Macron, in fondo, ha vinto sulla base di un nuovo sogno: il rinascimento francese e, quindi, europeo.

Questi limiti della politica come si ripercuotono sull’attività di relazioni istituzionali che pure lei svolge?

La rende più “sincopata”, all’inseguimento continuo di iniziative politiche spesso non coordinate tra di loro e prive di una visione chiara di sistema. Un’attività di trincea più che di movimento, nel complesso meno utile al Paese. Sono convinto che il public affair per essere vincente debba conciliare gli interessi di parte con gli interessi collettivi. Ma in assenza di una prospettiva riconoscibile a livello di sistema Paese, diventa più difficile anche la nostra attività.

Il mondo imprenditoriale, invece, che cosa dovrebbe fare in questo contesto?

Negli ultimi anni, in Italia, le grandi imprese – le poche che sono rimaste – hanno acquisito sempre di più una visione e una cultura di Paese. E ciò è dimostrato, ad esempio, dall’attenzione crescente che viene prestata ai territori nei quali operano e agli interessi più generali del paese. Penso, a tal proposito, alla Csr – la responsabilità sociale d’impresa – ma anche a meccanismi come l’Art Bonus, in virtù del quale le aziende contribuiscono a valorizzare il patrimonio pubblico.

Negli ultimi giorni si sta parlando molto di alternanza scuola-lavoro. Da docente universitario e da uomo di azienda cosa ne pensa?

Penso sia un tema decisivo, che ci consente anche di individuare alcune delle nostre principali lacune e di sfatare una serie di falsi miti. Il primo è quello secondo cui, in Italia, l’industria non esiste più. Non è vero: ancora oggi siamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa. Un settore che produce la maggior parte dei posti di lavoro e che dà un contributo fondamentale in termini di sviluppo. Tuttavia, oggi, in Italia nessuno si occupa di orientamento al lavoro, con la conseguenza che troppo spesso i nostri ragazzi finiscono con lo scegliere scuole superiori e facoltà universitarie sbagliate. Nel senso che vanno ad acquisire competenze non ricercate dal mercato. Un problema di sistema, per risolvere il quale è necessario un grandissimo sforzo di carattere culturale. Da parte della società civile e, prima ancora, della politica.

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