Mentre imperversano su tutti i media le tristi notizie relative alla profonda crisi in cui è caduta la città di Roma, mentre il ministro Carlo Calenda tuona contro la sindaca Virginia Raggi per il suo assenteismo e la ministra Beatrice Lorenzin constata lo stato di malessere profondo che si diffonde in fiumi di droga nella Capitale, il Papa ha incontrato ieri nella Sala Clementina l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani, esibendo uno dei suoi discorsi più chiari e incisivi sul significato politico della cittadinanza cristiana.
Qual è il valore e l’importanza che ha la vita nelle città e quale il suo modo di essere ordinato? Il Papa non fa sconti sulla realtà; il Papa non fa sconti sulle finalità. Le sue prime parole, ispirate dall’immagine biblica di Babele (Gen, 11, 1-9) come città incompiuta, si calano sul presente con una forza impressionante: “La memoria dell’umanità, come simbolo di confusione e smarrimento, di presunzione e divisione, di quella incapacità di capirsi che rende impossibile qualsiasi opera comune… condannando tutti alla violenza del caos”.
In effetti è esattamente il disordine a regnare oggi nelle strade e nei rioni dei nostri centri urbani, nelle piazze e nelle case dei nostri quartieri, perché egoismo, invidia, malvagità trasformano la convivenza civile in una giungla in cui il privato consuma e logora il noi comune, e gli spazi pubblici diventano luoghi ciechi di corruzione e di disperato disagio.
Come diceva Jules Gaultier, “l’uomo si concepisce dotato del potere di aumentare indiscriminatamente le sue gioie, in realtà non riuscendo se non ad aumentare il proprio potere”. È questo il vero nodo perverso che attanaglia la decadenza del nostro tempo, fornendo però anche la ricetta valida per uscirne, generata dalla presa d’atto di questo smarrimento di umanità e di un rapido e consequenziale cambiamento di rotta.
Francesco si rifà chiaramente a san Tommaso d’Aquino quando indica la soluzione, che è innanzitutto etica e poi politica, nel senso più alto della classicità filosofica aristotelica. L’Aquinate, infatti, spiegava che non tutte le azioni umane sono umanamente degne, ma solo quelle che seguono ragione e volontà, e perciò sono così indirizzate alla realizzazione del bene complessivo dei cittadini, e non a quello di pochi furbi privilegiati. Jorge Mario Bergoglio individua questo ritornare in sé delle persone nella “costruzione di una città in cui non uno slancio presuntuoso verso l’alto, ma un impegno umile e quotidiano verso il basso permetta non di alzare la torre ulteriormente, ma di allargare la piazza, di fare spazio, di dare a ciascuno la possibilità di realizzare se stesso, la propria famiglia, aprendosi alla comunione con gli altri”.
Fa qui la comparsa il valore fondamentale per concepire un ordine sociale che sia l’opposta soluzione al disfacimento e alla disgregazione contemporanea: l’idea di comunità. Essa è espressione di una passione per la giustizia sociale che passa attraverso la pratica personale appassionata del bene comune: quindi lavoro, servizi e opportunità, privilegiando non l’autostrada delle iper garanzie, ma le strettoie dei poveri, dei disoccupati, delle famiglie numerose, degli immigrati e di chi non ha niente né nessuno su cui contare.
Uscire dal cinismo malato dell’individualismo è educazione alla responsabilità, alla costruzione della piena e perfetta civitas, che altro non può essere che una communitas autenticamente cristiana, sociale e umanizzata. Chi avesse maturato dubbi sul portato autentico della concezione morale di Francesco ha modo di trovare in questo magistrale discorso pane per i propri denti.
Come spiegava sempre san Tommaso, il fine ultimo della città è la persona umana: “Così come infatti la singola persona è parte della famiglia, la società è parte della comunità perfetta”, una società nella quale non sono gli individui amorfi e chiusi in se stessi il punto di arrivo, ma semmai il punto di partenza per raggiungere il bene collettivo, una popolazione che si organizza in vita degna e attenta specialmente agli ultimi ed emarginati che ha accanto.
Il Papa ricorda in fondo ai sindaci, e anche a tutti noi, quale sia la natura permanente di una societas plena et perfecta dal punto di vista cristiano: una vita cittadina nella quale la felicità degli uni stia insieme alla speranza degli altri, un modo concreto di stare al mondo ordinando la vita temporale alla volontà di Dio, senza cedere alla disperazione e all’utopismo, volti diversi di un medesimo individualismo, e senza smettere di sperare nel futuro e di trovare oltre se stessi quanto è stato perduto nell’oscurità di un presente miope ed inquieto.