Mentre il comitato dei Nobel meditava di assegnare il Nobel per la Pace a Lady Pesc Federica Mogherini e al suo omologo di Teheran Mohammad Javad Zarif per l’accordo sul nucleare iraniano (JCPOE) siglato nel 2015, il presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump sarebbe pronto a rottamare la storica intesa. È quanto emerge dalle rivelazioni di ieri del Washington Post. Il quotidiano della capitale, e a cascata tutti gli altri, mettono in luce come il commander in chief, cui l’accordo tenacemente perseguito dal suo predecessore Barack Obama è sempre stato stretto, sia pronto a disfarsene. Suscitando la preoccupazione, oltre che dell’Iran, delle altre sei potenze firmatarie del JCPOE, cioè i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia), la Germania e l’Unione Europea.
La rottura era nell’aria da tempo. Già in campagna elettorale, Trump aveva definito l’accordo uno dei “peggiori di sempre”. Concetto ribadito il mese scorso dal presidente alla sua prima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dove parlò di un’intesa “imbarazzante per gli Stati Uniti”. Il piano della Casa Bianca, secondo il Washington Post, sarebbe di arrivare alla scadenza del 15 ottobre, quando la Casa Bianca dovrebbe ri-certificare la bontà del JCPOE, con un nuovo piano per la ristrutturazione complessiva delle relazioni con l’Iran, da annunciarsi tramite un solenne discorso da tenersi il 12 ottobre, e proseguire poi con la denuncia, tre giorni dopo, dell’accordo. La palla a quel punto passerebbe al Congresso che, secondo il meccanismo istituzionale concordato tra esecutivo e Parlamento, dovrebbe decidere se ripristinare le sanzioni punitive verso l’Iran. Nelle intenzioni di Trump, però, i legislatori dovrebbero astenersi dal prendere misure contro Teheran: ciò che conta, per il presidente, è liquidare un accordo inestricabilmente associato con l’eredità dell’odiato Obama, senza che ciò produca conseguenze effettive e devastanti quali seguirebbero inesorabilmente al ripristino delle sanzioni.
Più che riaprire il contenzioso con l’Iran sul programma atomico che il JCPOE ha congelato per quindici anni – prospettiva non condivisa da buona parte della sua squadra di governo, a partire dai segretari alla Difesa Jim Mattis, agli esteri Rex Tillerson, insieme al Consigliere per la Sicurezza Nazionale Herbert R. McMaster – ciò a cui punterebbe Trump è rinegoziare con Teheran, in concerto con il Congresso, un nuovo accordo che regolamenti, oltre al programma nucleare, la condotta più ampia di quello che, agli occhi di Trump, è uno Stato canaglia. Oggetto di discussione sarebbero in questo senso il discusso programma balistico dell’Iran, la sua alleanza militare con il presidente siriano Bashar al-Assad, che ha permesso a quest’ultimo di uscire vittorioso dalla complessa partita della guerra civile, e l’indefesso sostegno alle milizie libanesi di Hezbollah, acerrime nemiche di un alleato storico di Washington come Israele. Quanto al JCPOE, l’intenzione della Casa Bianca sarebbe di mettere in discussione le cosiddette “sunset clauses”, ossia la scadenza che prevede come l’Iran, a quindici anni di distanza dall’accordo, possa riprendere ad arricchire l’uranio, con la possibilità niente affatto remota che, in meno di un anno, possa dotarsi della bomba. A ciò si aggiungerebbe la volontà di rafforzare il meccanismo che regolamenta le ispezioni ai siti nucleari presenti in territorio iraniano, attualmente limitati ad attività civili, che l’amministrazione Trump vorrebbe fossero più intrusive.
Che le intenzioni di The Donald siano queste lo confermano le parole del senatore repubblicano dell’Arkansas Tom Cotton, super-falco che in questi giorni ha visto il presidente e concordato con lui un piano d’azione. Parlando martedì dalla tribuna del Council on Foreign Relations di Washington, autorevole think-tank e tempio della politica estera Usa, Cotton ha dichiarato che “il Congresso e il presidente, lavorando insieme, dovrebbero far capire come l’accordo possa cambiare e, nel caso in cui non cambiasse, a quali conseguenze andrebbe incontro l’Iran”.
Il progetto trumpiano si scontra però con due dati ineludibili. Anzitutto, la scontata opposizione dell’Iran a mettere in discussione il JCPOE. Poi, la ritrosia degli altri firmatari. Parlando all’Assemblea Generale dell’Onu dopo il discorso tonitruante di Trump, il presidente iraniano Hassan Rouhani aveva ammonito gli Stati Uniti ed escluso ogni prospettiva di una riapertura dei negoziati. Lo stesso aveva fatto il suo ministro degli esteri Zarif in un’intervista di qualche giorno fa al New York Times, dove aveva minacciosamente chiesto all’America se fosse pronta a “a restituirci dieci tonnellate di uranio arricchito”, riferimento ad una delle disposizioni del JCPOE che ha portato l’Iran a trasferire all’estero il 98% dell’uranio arricchito con le sue centrifughe.
Non meno duro sarà, per Trump, lo scoglio degli alleati. Che rumoreggiano da tempo e fanno capire di non essere disposti a fare dietro front e rinunciare ad un accordo salutato come una pietra miliare oltre che un baluardo della pace in Medio Oriente. In questi giorni negli Stati Uniti è tutto in via vai tra ambasciate e Capitol Hill, con i diplomatici dei paesi europei che fanno lobbying sul Congresso affinché riporti il presidente a più miti consigli. Significative, a tal proposito, le dichiarazioni dell’ambasciatore tedesco a Washington, Peter Wittig, rilasciate al New York Times: “Per noi, si tratta (il JCPOE) di una priorità della nostra sicurezza nazionale. Difenderemo l’accordo con l’Iran, e vogliamo che voi non lo abbandoniate, ma lo rispettiate. Condividiamo alcune delle vostre preoccupazioni sull’Iran, e possiamo parlarne, ma solo sulla base del mantenimento dell’accordo”.
La strada per Trump è dunque tutta in salita, e il comitato dei Nobel era prossimo a metterci lo zampino.