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Perché la finanza internazionale non tifa per l’indipendenza della Catalogna

Puigdemont

È ancora una volta dalla Spagna, ad ottanta anni dalla guerra civile, che emergono le risposte più dirompenti ai conflitti profondi che dilaniano l’intera Europa da ormai un decennio. Il conflitto tra Madrid e Barcellona, latente da sempre, è stato rinfocolato dai costi della crisi: economica, finanziaria, politica e sociale. Niente è stato risparmiato dalla crisi. L’indipendenza della Catalogna avrebbe conseguenze inimmaginabili, non solo istituzionali sulle statualità e le sovranità in Europa, quanto sulle garanzie dei creditori internazionali nei confronti dei debiti sovrani e dei privati all’interno dei singoli Stati. Gli Stati sono i grandi esattori. Gli interessi economici e finanziari saranno quindi ancora una volta determinanti: allora a favore del Franchismo, ora dello Stato centrale.

Ottanta anni fa, il conflitto era tra capitale e lavoro, per la redistribuzione del reddito e delle fonti di creazione della ricchezza. Nello schieramento repubblicano, accanto alle tradizionali forze socialcomuniste e sindacali, militavano consistenti gruppi anarchici e libertari. Barcellona fu cruciale su questo fronte. Si contrapponevano i falangisti, dietro cui si schieravano proprietari terrieri e capitalisti. La sinistra repubblicana era profondamente divisa al suo interno sulla questione della proprietà privata e degli espropri: la sua sconfitta fu determinata da questi dissidi e dal venir meno dell’appoggio sperato delle forze che si richiamavano all’internazionalismo proletario.

Le pulsioni autonomiste della Catalogna non si sono mai sopite: il nuovo Statuto, approvato nel 2006 dopo una lunghissima procedura, fu pesantemente amputato anche dal Tribunale costituzionale, nel 2010, dopo anni di ricusazioni incrociate nei confronti dei giudici. Furono i popolari guidati da Mariano Rajoy a richiedere il giudizio di costituzionalità, ed è sempre Rajoy oggi ad opporsi con fermezza alla deriva sovranista catalana.

Non basta però richiamarsi a questa radicata voglia di identità per spiegare ciò che sta accadendo in questi giorni. L’istanza anarchica e libertaria catalana riemerge, cavalcando stavolta l’onda dell’indipendentismo. Come si conviene ad una guerra rivoluzionaria, usa solo i temi unificanti dal punto di vista emotivo, tralasciando tutti quelli che sono politicamente e soprattutto razionalmente divisivi: l’uso della bandiera, dell’inno tradizionale, e della lingua, sono i segni di comune appartenenza cui nessuno può sentire estranei. Si crea un guscio, una testuggine.

Rimanere in Europa, come futura Repubblica di Catalogna, rappresenta per gli indipendentisti una sponda, una condizione fondamentale così come lo era stata l’appartenenza all’internazionalismo proletario. Stavolta è la sovranità sul territorio, non la proprietà del capitale, ad essere l’oggetto della contesa rivoluzionaria. L’Europa incarna l’internazionalismo che dovrebbe favorire l’obiettivo dell’indipendenza: da sempre, infatti, l’abbattimento degli Stati nazionali ed il contemporaneo sostegno dato alla rappresentanza delle comunità regionali è stato considerato funzionale alla creazione del super-Stato europeo. Non è casuale che la principale politica di riequilibrio dell’Unione sia svolta attraverso i Fondi di sviluppo regionale.

Siamo giunti al nodo: Barcellona sogna di costituirsi in una sorta di Città-Stato, una ambizione lontanissima da ciò che fu per secoli la Repubblica di Venezia. Si ispira piuttosto all’esempio di Hong-Kong: un piccolo territorio in grado di attrarre enormi moli di traffico, di turismo, di capitali. Ad imitazione di altri Stati europei dal territorio esiguo o infinitesimo, come l’Irlanda o il Lussemburgo, farebbe della politica fiscale un cavallo di battaglia per attirare imprese. Liberata dagli oneri e dai vincoli di solidarietà con il resto della Spagna, volerebbe.

Anche stavolta, nel conflitto tra lo Stato centrale madrileno e le istanze rivoluzionarie della catalogna, la storia si ripete. A Madrid, il Psoe è spaccato: metà sostiene il governo del Pp guidato da Mariano Rajoy, e metà sta all’opposizione. A Barcellona, non vi è alcuna certezza che si arrivi alla Dichiarazione di Indipendenza già lunedì prossimo.

L’Unione europea, chiamata in causa non fosse altro che per la difesa dei diritti umani che sarebbero stati violati dallo Stato spagnolo facendo intervenire la Guardia Civil nei confronti di manifestanti inermi, non ha alcuna voglia di giocare un ruolo di mediazione in quello che considera a ben ragione una questione interna spagnola.

“Sono sovente le regioni più ricche che vogliono l’indipendenza, e questo solleva il problema del trattamento delle ineguaglianze territoriali. La convergenza non è un problema che può essere risolto solo dagli Stati, anche l’Europa ha un ruolo da giocare”. Con queste parole, dopo aver sottolineato che la Catalogna non sarà ammessa nell’Unione Europea anche se dovesse divenire una Repubblica indipendente, il Commissario europeo Pierre Moscovici ha descritto le ragioni profonde della tentazione secessionista della Catalogna.

A voler essere sinceri, avrebbe potuto semplicemente affermare che i creditori internazionali non hanno alcuna voglia di aprire quel vaso di Pandora rappresentato dalla Spagna, visto che la Catalogna vale da sola il 16% del suo pil, ed il 26% dell’export. Non solo il debito pubblico spagnolo si è quadruplicato a partire dal 2007, arrivando quest’anno al 98,5% del Pil, ma il passivo della posizione finanziaria netta sull’estero è da record mondiale, negativo per 950 miliardi di euro, pari all’87,5% del Pil a fine 2016. Sta in fondo alle classifiche mondiali, insieme ad Irlanda, Portogallo, Grecia e Cipro.

È questo il macigno che i Catalani non si vogliono tenere al collo, e che peserà per molti decenni sull’economia spagnola, di cui si sentono il fiore all’occhiello.

Come accadde dopo la prima guerra mondiale e la depressione dei primi anni Trenta, anche stavolta si pone il problema della distribuzione dei costi della crisi, ormai decennale. Si è deciso innanzitutto che il costo della crisi dovesse essere sopportato dai Paesi Mediterranei, colpevoli per avere le finanze pubbliche fuori controllo ed uno sbilancio strutturale dei conti con l’estero. Le politiche di deflazione salariale, ottenute con manovre fiscali tremende, hanno fatto fallire decine di migliaia di imprese marginali provocando milioni di disoccupati. Si è versata altra benzina sul fuoco. Si è escluso, invece, di addossare una parte dei costi ai Paesi più efficienti dal punto di vista economico prevedendo trasferimenti correnti di risorse.

I costi sono stati poi ribaltati da un’area all’altra, attraverso i fenomeni migratori. Le dinamiche sono state violente, come le reazioni: il referendum sulla Brexit nasce dalle conseguenze della libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione in un contesto di grave e lunga crisi economica, correlato alla particolare generosità del welfare britannico nei confronti dei disoccupati. Si andava in Inghilterra con la speranza di trovare lavoro e la certezza di ottenere comunque un sussidio.

Non solo abbiamo assistito al crollo delle due principali famiglie politiche europee, Popolari e Socialisti, ed all’emergere di nuove e talora stravaganti formazioni, ma all’emergere di tensioni continue tra gli Stati dell’Unione europea ed all’interno degli stessi Stati: il referendum del 1° ottobre sulla indipendenza della Catalogna si aggiunge alla Brexit, alle posizioni dei Paesi del Gruppo di Visegrad sull’immigrazione, alle diffuse resistenze ai ricollocamenti di coloro che hanno ottenuto asilo, ed al recentissimo voto tedesco in cui non solo i Lander occidentali ed orientali hanno votato in modo assai difforme.

I fascismi, in tutte le loro declinazioni, rappresentarono una alternativa alla rivoluzione comunista, la risposta alle crisi economiche e sociali determinate dalla prima guerra mondiale e dai riflessi in Europa della crisi americana del ’29. Si decise così chi doveva pagare il loro costo.

Stavolta, la crisi sta determinando divari territoriali crescenti. Le tensioni territoriali riflettono le strategie messe in atto per sottrarvisi: si ridisegnano, così, non solo geograficamente, i processi di allocazione, produzione e segregazione della ricchezza. Sono gli interessi finanziari internazionali a volere ancora che gli Stati rimangano integri, ma solo perché danno maggiori garanzie sui debiti enormi che si sono formati. Sono loro il vero baluardo alla frammentazione statuale, non le forze politiche. Queste, al contrario, hanno perso coscienza di sé: la Cittadinanza non è lo status di chi vive nelle città rimaste fiorenti. E’ invece il diritto di tutti, di poter studiare, lavorare, curarsi, avere giustizia ed invecchiare dignitosamente in ogni territorio. Questa è la funzione pubblica cui ora si abdica in continuazione. L’Italia, soprattutto a Settentrione, è una distesa ininterrotta di cittadine, di paesi operosi, con capannoni, fabbriche, casolari, villette, campagne coltivate. Ora, intere aree si stanno desertificando, con danni sociali, economici e politici irreparabili.

Qui sta il nodo: se la ricchezza, il benessere, gli investimenti tornano a concentrarsi in aree sempre più ristrette, i divari si accrescono e le tensioni aumentano fino ad essere ingovernabili. L’indipendenza della Catalogna è una prospettiva dirompente, perché sfrutta una sua lingua e tradizioni antiche. Non solo Castigliani contro Aragonesi. Torneremmo al Medio Evo, alla civiltà comunale, ai conflitti tra Città e Città. Anche quella, in fondo, era Europa.


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