Il rispetto e la stima che merita per i ruoli prima di presidente e poi di presidente emerito della Repubblica non possono sottrarre Giorgio Napolitano allo stupore anche di qualche amico per la sua protesta contro l’ennesima riforma elettorale in arrivo.
La riforma, in verità, non è un capolavoro né per i contenuti né per le forme, né per i tempi. Per i contenuti, a causa del fatto che i parlamentari continueranno ad essere più nominati dai partiti, anche da quelli che fingono di dolersene, che eletti dai cittadini. Per le forme, perché il ricorso al voto di fiducia per disarmare i cosiddetti franchi tiratori è sempre una forzatura, specie quando a proporre la legge non è stato il governo. Per i tempi, perché ancora una volta si è disattesa un’assennata direttiva europea, chiamiamola così, contro le regole elettorali cambiate a ridosso del voto, anche se in questo caso si cambiano regole non approvate dal Parlamento ma derivate da tagli apportati, al di fuori di esso, dalla Corte Costituzionale a leggi arrivate al suo esame.
Ma il dissenso di Napolitano, oltre che dal ricorso alla fiducia, che è una questione più di galateo istituzionale che altro, deriva dal protagonismo riconosciuto ai capi dei partiti in lizza, da soli o in coalizione, perché – ha osservato non a torto il presidente emerito – si dà all’elettore la sensazione equivoca di andare alle urne per eleggere non solo il Parlamento ma anche il governo. Che invece nasce al Quirinale per un articolo della Costituzione, il 92, che più chiaro non poteva essere scritto: “Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”. Che non a caso giurano “nelle mani del presidente della Repubblica” – dice l’articolo 93 – “prima di assumere le funzioni” e di affrontare il percorso della fiducia delle Camere imposta dall’articolo 94.
Ebbene, questa sequenza di articoli non è compromessa solo dall’illusione che la riforma in arrivo, secondo Napolitano, dà all’elettore di scegliere il governo votando per una certa coalizione o per un certo partito e relativo capo. È compromessa anche, anzi soprattutto, dalla logica del sistema elettorale maggioritario, totale o misto che sia, vantata pure da Napolitano e dal suo partito di allora, il Pds-ex Pci, quando gli italiani furono chiamati con un referendum nel 1993 ad archiviare o ridurre il sistema proporzionale proprio per fare eleggere – si disse, anzi si gridò – anche il governo.
Fu allora che l’articolo 92 della Costituzione venne picconato, direbbe la buonanima di Francesco Cossiga. E vennero trattati come scimuniti quei pochi – ahimè – che, preferendo il sistema proporzionale praticato per più di 40 anni, si permisero di dissentire dal tifo politico e mediatico per il metodo maggioritario, segnalandone inutilmente la contraddizione con la logica proporzionalistica della nostra carta costituzionale.
Fino a quando lo scenario politico è rimasto bipolare, anche se nessuno dei due poli, di destra e di sinistra, o di centrodestra e centrosinistra, ha sempre fatto fatica a reggere ai contrasti interni, il pasticcio referendario partorito nel 1993 ha in qualche modo retto, consentendo a Silvio Berlusconi e a Romano Prodi, per esempio, di alternarsi a Palazzo Chigi in almeno due occasioni, anche se nella prima il centrosinistra preferì tornare alle urne, nel 2001, rottamando prima altri due suoi presidenti del Consiglio: Massimo D’Alema e Giuliano Amato.
Ora che lo scenario è diventato con i grillini tripolare, se non addirittura quadripolare con la divisione della sinistra fra renziani e antirenziani, per chiamare cose e uomini con i loro nomi, ed è stata spazzata via anche la riforma elettorale tentata da Renzi per semplificare il gioco, il pasticcio non può più essere nascosto. Neppure da Napolitano, che vi ha partecipato alternando come capo dello Stato pazienza e impazienza, sino a incorrere nell’accusa di golpismo tanto da destra quanto da sinistra.