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Il caso Ilva, le elezioni e la responsabilità

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Caro direttore,

è l’approssimarsi delle elezioni politiche la ragione dell’intervento forte del governo sul caso Ilva? La tesi ha il suo fascino e, in democrazia, non deve certo scandalizzare. Quando si parla del più grande gruppo siderurgico presente in Italia le cose sono sempre più complicate di come si presentano. Dunque, quello di Calenda che ha esibito un vigoroso semaforo rosso al piano industriale degli indiani di Mittal, è stato un atto statalista (a fini elettorali) o, come ha scritto Cerasa sul Foglio, un caso di “liberalismo pragmatico”? Oppure, avrà ragione il cardinale Bagnasco, fortemente radicato nella sua Genova, a denunciare la mancanza in Italia di una “visione industriale”? Vengo al punto.

L’azione dell’attuale ministro dello sviluppo economico può essere criticata per tante ragioni (il dibattito delle idee non ce lo può negare nessuno) però credo che gli vada riconosciuto un merito. In ogni sua presa di posizione – e non lo si può certo accusare di timidezza o di approcci equivoci – si riscontra un filo conduttore: l’idea di individuare e perseguire l’interesse nazionale. Dal rapporto con i francesi di Bollorè a quello con gli indiani, lo sforzo è lo stesso. È evidente che ci possono essere visioni e letture diverse dell’interesse nazionale ma elevare questo concetto da principio teorico a bussola dell’azione di governo è un passo in avanti non da poco. Se poi Calenda vorrà candidarsi alle politiche si vedrà. Lui lo esclude e, a dirla tutta, io mi auguro invece che il suo punto di vista trovi una modalità di rappresentanza.

La mossa elettorale però non la vedo. Non qui. La maledetta voglia di pubblicità e di “capitalizzazione” politica c’è stata sì, eccome. Ma non riguarda né Calenda né la Pinotti e neppure quanti si sono occupati del dossier nei precedenti governi (il primo, eroico, fu Clini). A candidarsi in Puglia sono stati quanti hanno cavalcato l’inchiesta tarantina del 2012 che ha determinato la morte di fatto della siderurgia italiana (i Riva sono stati invece condannati dall’azione della Procura di Milano che ha dimostrato la loro colpevolezza per questioni dimostrabili, e dimostrate). Lo stesso procuratore capo di Taranto, Sebastio, protagonista di quella inchiesta, appena lasciato l’ufficio per il pensionamento, si è candidato a sindaco, peraltro senza successo (com’era capitato agli ambientalisti che avevano denunciato le morti dell’Ilva nella città pugliese). Nulla di male ovviamente se l’ex procuratore capo si candida a primo cittadino nel territorio dove ha esercitato il suo mandato ma certamente molto più logico che a cercare il consenso sia chi ha responsabilità politiche esplicite in quanto parlamentare eletto o membro di un governo che la fiducia nelle Camere. Più in generale il corto circuito che si è determinato sulla vicenda Ilva sulle dicotomie salute/lavoro e informazione giudiziaria/propaganda meriterebbe una commissione d’inchiesta molto più che la vicenda banche. Qualcuno, e non questo governo, si è giocato il futuro industriale del Paese come fosse una partita a calcetto. Qui ed ora, purtroppo, il tema è come tenere i cocci rimasti di un vaso che è stato rotto con una irresponsabilità che grida vergogna.



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