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Ilva e Taranto, cosa dicono (e cosa non dicono) i sindacati

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Sono passato da quelle parti centinaia di volte, anche perché il Palazzo di Giustizia di Milano si trova di fronte alla sede della Camera del Lavoro. Ma quella scritta a caratteri cubitali l’ho notata solo l’ultima volta (o forse me ne ero dimenticato). “FIAT IUSTIZIA ET PEREAT MUNDUS“, un broccardo di incerta origine che significa più prosaicamente: “Vada pure in malora il mondo purché sia fatta giustizia”. Ovviamente si tratta di un paradosso dal momento che non serve a nulla il fare giustizia in un mondo di morti. Non facciamoci ingannare dal latino: i romani erano cultori di un diritto che è arrivato fino a noi, proprio perché potevano vantare una concezione molto pratica delle cose della vita. Solo i fondamentalisti (ce ne sono anche in toga) possono sentirsi autorizzati a giudicare sulla base di quel principio catastrofico. Ne abbiamo avuto un esempio concreto all’Ilva.

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Le proposte della società che ha acquistato gli stabilimenti Ilva di Taranto e di Genova – sia per i tagli agli organici, sia per le nuove regole economiche e normative – sono considerate inaccettabili dai sindacati che in risposta hanno già effettuato uno sciopero, mentre a Taranto circola la voce di un prossimo blocco di tutte le attività cittadine. I sindacalisti fanno il loro mestiere, ma, in generale, sono persone esperte e con la testa sulle spalle. Che cosa si aspettavano da una fabbrica ferita a morte, in sofferenza da anni, con un ciclo produttivo che non è in grado di sopportare, senza gravi danni (probamente irrecuperabili), gli interventi imposti dalla Procura di Taranto sul funzionamento degli altiforni? L’idea di bloccare la città doveva venire quando una linea di condotta discutibile della magistratura inquirente ha determinato il declino inarrestabile di un’impresa sana e produttiva. Ma allora i sindacati avevano deciso di essere politicamente corretti e di non mettere, quindi, in discussione gli atti delle Procure, succubi del mito della loro infallibilità. Quando sono costretti a misurarsi con l’intransigenza bucolica degli ambientalisti d’antan, i dirigenti sindacali – anche quelli più radicali – vanno in crisi, cominciano ad agitare un’enorme coda di paglia e non trovano nemmeno il coraggio di spiegare che produrre l’acciaio non è come coltivare le rose (anche se, in floricultura, bisognerebbe stare in guardia nell’uso dei fertilizzanti).

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Teresa Bellanova è viceministro dello Sviluppo economico. Ha dimostrato di saper gestire le vertenze difficili. Ex sindacalista della Cgil, si è accorta – durante la vertenza Almaviva – quali danni possano provocare gli errori dei lavoratori e l’intransigenza dei sindacati (che è poi soltanto un modo per scaricare le responsabilità). Pugliese, Bellanova è incaricata di gestire la vertenza Ilva in questo cruciale passaggio. Intanto, ha rilasciato delle dichiarazioni significative su cui i sindacati dovrebbero meditare, prima di perdere la testa ed infilarsi in una strada senza uscita. “Nessun lavoratore – ha ribadito il vice ministro – rimarrà senza tutele. Inoltre, la retribuzione media a lavoratore sarà di 50mila euro l’anno. E ci sarà la copertura della cassa integrazione per chi rimane in amministrazione straordinaria”. Ha aggiunto poi: “I commissari possono fare ricorso a questi lavoratori per il ripristino ambientale entro il 2023, come prevede il piano”. “Alla fine del percorso – ha concluso Bellanova – l’obiettivo è superare i 6 milioni di tonnellate di acciaio da produrre”.

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