La reazione interna iraniana alla decisione di non certificare il progresso dell’accordo nucleare con Teheran da parte del presidente americano Donald Trump per ora è in sordina. L’ordine di scuderia tiene fermo il punto della gerarchia della Repubblica islamica: uniti per contrastare il nemico comune. Ma è evidente che, se il Congresso – cui Trump ha dato nuovamente in mano le sorti delle proprie scelte – dovesse prendere la via dei falchi che vogliono distruggere il Nuke Deal a colpi di nuove sanzioni, le cose cambierebbero.
LA PRAGMATICA DI TEHERAN
Il congelamento del programma atomico degli ayatollah con contropartita il defrost sulle sanzioni (e la conseguente riqualificazione internazionale) è l’unica, pragmatica motivazione che ha tenuto, sebbene con crepe, unito l’establishment sciita che ha in mano il potere in Iran. Se smotta l’accordo e dovessero tornare le sanzioni il primo a rimetterci la testa rischia di essere proprio il presidente Hassan Rouhani: è sua, e del suo quasi-Nobel-per-la-Pace ministro degli Esteri, la linea realista che ha portato alla chiusura dell’intesa con le controparti occidentali in cambio dello sblocco di dozzine di miliardi finora ibernati dalle sanzioni americane ed europee. Soldi da poter muovere all-around-the-world, per ridare vento a un’economia sofferente e far tornare grande la nevralgica industria petrolifera (con cui prontamente le compagne occidentali, a cominciare dall’Eni, hanno riavviato il business). La linea dura a Teheran lo tiene Rouhani, intanto aspetta. Rischio concreto aggiuntivo: se anche il Congresso americano dovesse scegliere una linea più polite, potrebbe comunque fare mosse severe, come includere i Guardiani della Rivoluzione tra le organizzazioni terroristiche. È proprio all’interno del corpo politico-militare collegato alla guida teocratica dell’Iran che si annidano i falchi, e la reazione all’eventuale scelta americana sarebbe un problema laterale per Rouhani (ma non meno delicato) – e, ampliando il concetto, per la stabilità regionale.
DESTABILIZZAZIONE
Nel sistema politico iraniano il presidente sottosta alla Guida Suprema: Ali Khamenei ha lasciato campo libero al lavoro della diplomazia nucleare voluto dal governo, ma non ha mai risparmiato critiche, perché è pur sempre sulla propaganda che si basano questo genere di poteri assoluti (e la propaganda richiede anche di tenere una linea dura). Lo scetticismo è cresciuto dall’elezione di Trump, Khamenei più volte ha parlato della scarsa affidabilità del presidente statunitense, che non avrebbe lui tenuto fede all’accordo. Ora la mossa della Casa Bianca è miele per le posizioni più intransigenti all’interno del potere di Teheran, quelle per cui l’America è ancora il “Grande Satana”. Il rischio, come hanno spiegato alcuni esperti alla Reuters, è ritrovare l’applicazione pratica in termini di politiche regionali delle posizioni iraniane più aggressive – quelle che hanno costruito il network di partiti-milizia con cui l’Iran sta cercando di giocare influenza nel Medio Oriente, e che adesso, davanti il ritiro di Trump, si potrebbero sentire legittimate a battere sulla loro linea. Polarizzazione: mentre gli stati europei parte dell’accordo hanno preso posizioni diplomaticamente critiche nei confronti della decisione di Trump, Arabia Saudita e Israele, alleati americani ma soprattutto nemici ideologici e geopolitici dell’Iran, lo stanno sostenendo (da leggere, a proposito, l’intervista di Francesco Bechis su queste colonne all’ex ministro e direttore dello Shin Bet israeliano Yaakov Perry) .