“Il problema dell’immigrazione non può essere risolto con soluzioni facili e immediate. Bisogna lavorare su strategie di medio-lungo periodo e interfacciarsi in maniera stabile con i Paesi da cui partono i migranti… Chiudere le frontiere non è una risposta realistica rispetto alla necessità di arginare il fenomeno in corso. Si deve, piuttosto, lavorare di pari passo con gli altri Paesi senza dimenticare che l’Italia rappresenta il confine meridionale dell’Unione Europea e le sue frontiere sono le frontiere d’Europa”: così ha esordito Laura Frigenti, Direttrice dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, nel suo intervento al CSIS di Washington DC nel corso di un incontro dedicato all’impatto della migrazione sull’Europa.
Gli sforzi quotidiani della Italia in materia di flussi migratori, dunque, sono particolarmente apprezzati oltreoceano e l’esperienza che il nostro Paese ha maturato nel corso degli ultimi anni nella gestione di un fenomeno così articolato riscuote attenzione sia da parte degli studiosi della materia che da parte di coloro che hanno il compito di elaborare politiche di contrasto.
Come affermato da Laura Frigenti nella discussione, il rapporto che l’Italia ha con la migrazione è “particolarmente complicato”: siamo stati, infatti, per lungo tempo un Paese di migranti e il popolo italiano ha sperimentato sulla propria pelle le difficoltà e i problemi connessi all’emigrazione. Nonostante dovremmo per nostra stessa natura essere più aperti e assumere un atteggiamento comprensivo nei confronti di chi è costretto a lasciare la propria terra in cerca di fortuna, la realtà della crisi economica e le problematicità che ne derivano rendono il nostro Paese meno accogliente e meno predisposto di quanto si possa pensare.
Rispetto, poi, ad un quadro interno agitato da una contingenza economica certamente non favorevole, si deve considerare “il cambiamento epocale che ha interessato le giovani generazioni” dei Paesi da cui partono i flussi migratori. Secondo la direttrice dell’AICS, infatti, il vero cambiamento epocale starebbe nell’impostazione culturale di chi parte con la convinzione di trovare nel Paese di destinazione un luogo in grado di rispondere pienamente ad ogni aspettativa e di soddisfare il diritto a una vita dignitosa, come quella vista in televisione o attraverso internet. La realtà dei fatti risulta essere, invece, assai più complicata e difficile da gestire.
La testimonianza di Laura Frigenti è stata rafforzata dall’intervento del Professor Furio Rosati dell’Università Tor Vergata di Roma, secondo cui la giusta risposta a un quadro così articolato sarebbe da ricercare in una “strategia integrata” che prescinda da posizioni eccessivamente semplicistiche. Le policy da adottare debbono guardare prima di tutto al mercato del lavoro, all’educazione, ad investimenti ad hoc da programmare insieme ai partner europei e ai Paesi colpiti dal fenomeno. Chi parte, poi, dovrebbe essere “adeguatamente preparato a conoscere le regole del Paese di destinazione” con la consapevolezza che la scelta di migrare possa anche non essere necessariamente una decisione definitiva ma interessare un periodo limitato della vita.
Grande attenzione è stata anche dedicata alla posizione assunta dalla Chiesa cattolica e dal Papa sul tema. L’argomento è stato trattato da Richard Ryscavage della School of Foreign Service della Georgetown University, già direttore del Jesuit Refugee Service degli Stati Uniti. Secondo il padre gesuita, le priorità immediate nella gestione del fenomeno restano quelle relative al mondo del lavoro e agli strumenti di integrazione nelle società di destinazione. A questo aspetto si aggiunge la necessità di garantire un’effettiva libertà di movimento ai migranti.
Jonathan Prentice, chief of staff dell’Office of the Special Representative of the Secretary General for International Migration delle Nazioni Unite, ha concluso la discussione evidenziando i profili internazionali connessi alle sfide dettate dalla migrazione.
Nelle sue riflessioni è emersa la convinzione secondo cui un solo Paese non riuscirebbe in alcun modo ad affrontare un problema così impegnativo e “sovranazionale”. In questo si impone il necessario coinvolgimento delle organizzazioni internazionali e si può facilmente intravedere il richiamo (non troppo velato) alla responsabilità di quei Paesi indirettamente interessati al fenomeno in una prospettiva nazionalistica ma immediatamente chiamati in causa poiché parte integrante dell’Unione Europea.