Il 2 ottobre 1869 nasceva a Porbandar Mohandas Karamchand Gandhi. La sua famiglia (non imparentata con quella di Indira Gandhi) apparteneva alla casta dei vaisya (mercanti), la terza nel sistema castale indiano dopo quelle dei brahmini (sacerdoti) e dei kashatryas (guerrieri). Dopo aver studiato legge a Londra, Mohandas nel 1893 sbarca a Durban come consulente legale di una ditta della sua città natale. Vi resterà fino al 1914. Rientra in patria l’anno successivo preceduto da una fama di scaltro avvocato e abile negoziatore dei diritti degli indiani residenti in Sud Africa, ma non molto di più. Nel giro di un quinquennio diventa il leader carismatico del movimento di liberazione dal giogo britannico.
Inizia quindi il suo straordinario impegno politico, segnato da imponenti campagne di disobbedienza civile e di difesa delle masse contadine, da memorabili scioperi della fame e interminabili periodi di detenzione. Una lunga marcia che si interromperà il 30 gennaio 1948. Dopo la sua consueta preghiera pubblica, viene freddato con tre colpi di rivoltella da un giornalista indù. Accasciandosi al suolo, Gandhi invoca il nome di Dio: “He Ram”. Pochi mesi prima, il 15 agosto 1947, l’India si era guadagnata l’indipendenza, ma mutilata dalle province che costituiranno il Pakistan (che letteralmente significa “Terra dei puri”). MuHammad Ali Jinnah, fautore di uno Stato islamico e fiero avversario dello Stato laico propugnato da Gandhi, aveva vinto. Per il Mahatma (che in sanscrito significa “grande anima”) era stata una tragedia, la fine ingloriosa di trentadue anni durissimi spesi per la riconciliazione religiosa del Paese.
Come ha osservato Giuliano Pontara, sulla figura di Gandhi si sono espressi i pareri più discordi (Teoria e pratica della non-violenza, Einaudi, 1996). Winston Churchill lo considerava un sedizioso fachiro orientale, la cui semplice vista lo nauseava. Albert Einstein, al contrario, stentava a credere che una personalità di siffatta statura morale potesse esistere in carne ed ossa. Sono vicini all’idea di Churchill quanti, sottolineando certi tratti spiccatamente ascetici dei suoi costumi (quali il vegetarianesimo, la castità, la cura naturale delle malattie), lo hanno paragonato a un guru privo di qualsivoglia messaggio universale. Sigmund Freud lo aveva liquidato addirittura come una manifestazione della “giungla del misticismo bengalese”. Sono invece vicini all’idea di Einstein quanti, sedotti invece proprio dal suo stile di vita e dai suoi insegnamenti, ne hanno ingigantito l’immagine fino a definirlo il “Bodhisattwa” del ventesimo secolo, e cioè il saggio illuminato e compassionevole che indica all’umanità la via della salvezza. Secondo Pontara, questi modi di vedere sono – più che unilaterali – errati, poiché precludono la possibilità di cogliere criticamente il nucleo fondamentale del “gandhismo”. Espressione pure ripudiata dallo stesso Gandhi, che temeva una degenerazione del suo pensiero in settarismo ideologico.
Il verbo della non-violenza ha ricevuto nel corso del tempo interpretazioni altrettanto disparate. Per fare qualche nome, è stato accolto con entusiasmo da Romain Rolland, da Aldo Capitini e, in qualche misura, da Giorgio La Pira. Ma in Italia solo i radicali di Marco Pannella assumeranno come loro simbolo l’effigie del Mahatma. La sua dottrina è stata invece bollata come utopica da Jean Paul Sartre e Franz Fanon, e perfino come reazionaria da Herbert Marcuse e Malcom X. Ma di quale non-violenza stiamo parlando? La domanda è cruciale. Gandhi ha sempre distinto la non-violenza come convinzione (non-violence as a creed) dalla non-violenza come scelta tattica (non-violence as a policy). La prima è quella del forte (o “satyagraha”), che si basa sul rifiuto morale della violenza e che richiede audacia, abnegazione, disciplina e una fede profonda nella bontà della propria causa. La seconda è quella del debole (o resistenza passiva), a cui ricorre chi non si sente abbastanza risoluto da impugnare le armi. Quest’ultima, a sua volta, non va confusa con la non-violenza del codardo, frutto di pura vigliaccheria o di meschini interessi egoistici. Nonostante -scrive nel 1938 – “la violenza non sia lecita, quando viene usata per autodifesa o a protezione degli indifesi essa è un atto di coraggio, di gran lunga migliore della codarda sottomissione”. In tal senso, la posizione di Gandhi non può essere identificata con il pacifismo assoluto di Lev Tolstoj, come ha sostenuto il sociologo americano Irving L. Horowitz (The Idea of Peace and War, in Contemporany Philosophy, 1957). Né essa può essere identificata con talune varianti del pacifismo occidentale, come l’obiezione di coscienza al servizio militare e il rifiuto di uccidere non solo i propri simili, ma qualsiasi creatura vivente.
Questa posizione, che peraltro non escludeva in casi particolari il ricorso all’eutanasia mentre condannava il ricorso all’aborto, diviene esplicita in almeno quattro circostanze. Gandhi infatti partecipa direttamente al conflitto contro i boeri (1899) e alla repressione della rivolta degli zulù (1906). Inoltre, collabora con le autorità britanniche in due momenti della prima guerra mondiale: nel 1914, quando da Londra invita i suoi connazionali residenti in Inghilterra ad arruolarsi come volontari nel suo esercito; e nel 1918, quando da Delhi promette di reclutare soldati per le sue truppe. In un capitolo della sua Autobiografia, farà ammenda per aver compreso con colpevole ritardo la natura colonialista dell’Impero di Sua Maestà, ma poi afferma: “È possibile che le autorità non sempre siano nel giusto, ma finché i sudditi riconoscono l’autorità di uno stato, è loro preciso dovere conformarsi e dare il loro appoggio alle decisioni dello stato”.
Gandhi, per altro verso, non cesserà mai di ribadire che “se la disobbedienza civile non è accompagnata da un programma costruttivo, è un atto criminale e una dispersione di energie”. I lineamenti essenziali di questo programma li aveva già riassunti in un pamphlet del 1909, Hind Swaray (“La forza della verità” nella traduzione italiana). Si tratta di un progetto pionieristico di “società non-violenta”, che si articolava in molteplici obiettivi: dall’abolizione dell’istituto dei “fuoricasta” o “intoccabili” (lo strato sociale più emarginato e privo di diritti) alla parità dei sessi; dalla valorizzazione del lavoro manuale alla promozione della piccola industria di villaggio; da un nuovo sistema educativo alla riduzione del divario insostenibile tra ricchi e poveri; dal contrasto all’uso delle droghe alla diffusione della lingua nazionale. Ma il punto centrale del progetto era l’introduzione del khaddar, cioè della filatura e tessitura nelle case del cotone. Perché il “khadi dà lavoro a tutti, i tessuti filati a macchina danno lavoro ad alcuni mentre deprivano molti di un’onesta occupazione […]. Il khadi serve il lavoro, il telaio meccanico lo sfrutta”. Profondo conoscitore delle opere di Tolstoj e impressionato dalla lettura di un libro di John Ruskin, Unto This Last (“Fino all’ultimo”, 1862), Ghandi ha sempre attribuito al lavoro manuale un valore pedagogico, oltre che economico. È in questo contesto che elabora nel 1938 un piano di addestramento delle “brigate della pace”, le quali avrebbero dovuto costitire l’alternativa non-violenta alla leva obbligatoria.
Il metodo del “satygraha” non ha avuto grande eco nella cultura e nella politica occidentale. Per Karl Jaspers, ad esempio, il suo successo era inestricabilmente legato a condizioni eccezionali: le tendenze non-violente dell’induismo e la liberalità del dominio inglese (La bomba atomica e il destino dell’uomo, 1966). In realtà, l’intera storia dell’India dimostra tutt’altro, fino alle recenti stragi fratricide fra indù e musulmani. Non si può certo dare torto a Thomas Hobbes quando sosteneva che “i patti, senza la spada, non sono che parole”. Nessuna persona ragionevole, però, può negare l’assillante attualità della ricerca di alternative plausibili alla violenza, nei conflitti sociali e nei rapporti tra Stati. Giacché, come una volta ebbe a dire Gandhi, anche la causa della libertà diventa una beffa se il prezzo che occorre pagare per la sua vittoria è l’annchilimento di coloro che ne devono godere. Poco prima dell’assassinio del Mahatma, Albert Camus, interrogandosi sulla scelta della non-violenza, aveva scritto che “se l’uomo che spera nella natura umana è un pazzo, colui che dispera di fronte agli avvenimenti è un codardo” (Ni victimes Ni bourreaux, in Combat, novembre 1946). Né vittime né carnefici, appunto, questo è il problema.