Il referendum catalano è un brutto pasticcio che non lascia intravedere una soluzione ragionevole, ma che rischia di diventare sempre più complicato. Dal punto di vista giuridico il governo di Madrid e il premier Mariano Rajoy hanno ragione, non solo in base a quanto prevede la Costituzione, ma anche perché non è legittimo un referendum autogestito, senza la possibilità di verificarne il regolare svolgimento, come è avvenuto domenica 1° ottobre.
I tre milioni di votanti, poi, somigliano molto a quelli – contati ad occhio – che vennero a Roma il 23 marzo del 2002 a manifestare e ad ascoltare il comizio di Sergio Cofferati contro le modifiche all’articolo 18. Pertanto non si può dare torto al premier quando afferma che il referendum non è esistito. Ma sul piano politico è consentito negare ogni rilevanza ad un episodio di cui si è impedito con la forza il normale svolgimento? Ecco perché il significato politico dell’operazione rischia di invalidare quello giuridico.
I secessionisti che probabilmente non avrebbero vinto in una competizione normale – magari soltanto di carattere consultivo – che fosse stata preceduta da una vera campagna elettorale ed organizzata con seggi, liste, schede, scrutatori, si sentono legittimati a dare qualunque interpretazione del voto dopo gli eventi che hanno preceduto e caratterizzato la giornata. Loro non possono dimostrare con certezza che ha votato la maggioranza degli aventi diritto; ma il governo non è in grado di sostenere il contrario. La questione comunque è molto delicata. È vero che le nazioni nascono sovente da un atto di rottura del precedente assetto istituzionale; ma è altrettanto vero che basta molto poco per disfare ciò che è stato costruito nel corso dei secoli.