Ha scritto Jacques Le Goff che nella società medievale la donna non aveva un posto. Schiacciata tra le classi degli oratores (quelli che pregano), dei bellatores (quelli che combattono), dei laboratores (quelli che lavorano), si definiva solo in quanto sposa, vedova o vergine. Diversamente da monaci e predicatori, soldati e cavalieri, artigiani e mercanti, era priva di una personalità giuridica, morale ed economica. Era anzitutto un ventre, vittima di una fecondità che prima dei quarant’anni la costringeva a passare da una gravidanza all’altra. Sottomessa ai suoi doveri coniugali, trovava solo dei compensi limitati nell’amore per i figli, seppure spesso affidati a nutrici e decimati dalla terribile mortalità infantile.
Nella documentazione del Medioevo – frutto di una cultura dominata dai maschi – la voce delle donne si fa quindi sentire di rado, e il più delle volte proviene dagli strati più alti del ceto più alto. In questa ristretta galleria di personaggi femminili spicca il ritratto di una nobile provenzale, Sybille de Cabris, protagonista di un memorabile conflitto con una potente compagnia di banchieri fiorentini del Trecento. In passato già al centro dell’attenzione di due studiosi, Michele Luzzati e Noël Coulet, è stato ricostruito dal medievista Amedeo Feniello in un volume dedicato all’età del fiorino, in cui la moneta coniata per la prima volta a Firenze nel 1252 si afferma come mezzo di pagamento universale (Dalle lacrime di Sybille, Laterza, 2015).
La ventenne Sybille nel 1335 aveva sposato Annibal de Moustiers, signore della valle d’Entrevennes (i cui campi saranno cari ai pittori impressionisti francesi). Li unisce una passione travolgente quanto sfortunata. Infatti, pochi mesi dopo Annibal muore in un torneo a Riez. I beni della ricca Sybille fanno gola ai de Moustiers, che l’accusano di simulare l’attesa di un erede. La calunnia cade quando il venerdì santo del 1336 nasce Annibaldellus.
La reputazione sociale e il tenore di vita di Sybille rischiano però di essere incrinati da serie difficoltà finanziarie. Sono gli anni in cui carestie e epidemie flagellano l’Europa intera. I crescenti squilibri tra risorse agricole e popolazione, insieme alla scarsa resistenza alle malattie, determinano un vero e proprio regresso demografico: migliaia di villaggi rimanevano deserti; molte zone coltivate, specialmente quelle meno produttive, venivano abbandonate per mancanza di manodopera. Sybille si convince che non era più possibile assicurare una gestione efficiente a possedimenti che si estendevano fino alla Campania. Mostrando una imprevedibile energia imprenditoriale, decide allora di tagliare alcuni rami secchi delle sue proprietà fondiarie e immobiliari per investire il ricavato nell’acquisto di una più prestigiosa residenza nella sua terra d’origine.
Nella primavera del 1339 illustra il suo progetto a un amico fidato, Audibert Raymbaud, che si trasferisce a Napoli per vendere il castrum Fontanya (probabilmente l’odierna Fontanarosa, in provincia di Avellino). Vi resterà tre anni. Non conosciamo l’identità dell’acquirente. Comunque, grazie anche ai buoni uffici di due influenti cortigiani del Regno di Sicilia, il conte Ugo del Balzo e il ciambellano Pierre de Cadenet, nel 1342 il feudo viene finalmente alienato per 1591 fiorini. La somma è consegnata a Matteo Villani, socio della compagnia dei banchieri Buonaccorsi. Il bonum et legalem mercantem de Florencia tenentem cambium in Neapoli viene quindi incaricato di depositare la somma nella filiale di Avignone, dove Raymbaud avrebbe provveduto a ritirarla. La scelta della nobildonna era quasi obbligata.
Per il trasporto dei soldi occorreva evitare il periculum maris et malarum gentium, e i Buonaccorsi fin dal 1324 avevano aperto uno sportello nella sede della corte papale. Essi erano in grado di provvedere direttamente ai trasferimenti di denaro dall’Italia meridionale, dove potevano contare su una solida clientela di ecclesiastici legati alla compagnia per le forniture commerciali e per i servizi bancari. Proprio questi servizi avevano consentito ai Buonaccorsi di allargare l’area delle loro attività. Deputati dal pontefice alla riscossione delle decime e grazie ai cospicui depositi dei privati, attratti da interessi lucrosi, potevano disporre di ingenti quantità di numerario da investire nel traffico dell’allume, dell’olio, del bronzo, del grano e dei tessuti. Un traffico che ormai si diramava lungo tutte le più importanti piazze del Vecchio continente: Genova e Marsiglia, Venezia e Barletta, Parigi e Londra, Bruges e Anversa.
Giovanni Villani, fratello di Matteo, nella sua Nuova Cronica collocava i Buonaccorsi immediatamente dopo le grandi società fiorentine dei Bardi, dei Peruzzi e degli Acciaioli. Quattro compagnie che, pur diverse per stazza economica e peso politico, si basavano su un identico meccanismo. Infatti, agivano sempre allo scoperto. Gli alti interessi sui depositi erano finanziati dai premi sui cambi, mentre la loro restituzione era garantita dai guadagni derivanti dai negozi mercantili. I rischi erano naturalmente molto elevati, e aumentavano esponenzialmente quando le compagnie si impegnavano in prestiti pretesi dai sovrani per le loro avventure belliche. Prestiti che, sebbene in parte coperti dai diritti di estrazione delle materie prime o da stock di metalli preziosi, si rivelavano alla lunga disastrosi perché raramente rimborsati. L’unica via d’uscita era allora il fallimento.
Sybille non tarderà a scoprirlo. Nella primavera del 1342 l’agenzia avignonese dei Buonaccorsi all’improvviso scompare. I 1591 fiorini si erano dissolti nel nulla. La dama de Moustiers non si dà pace. Forse non sapeva che l’anno precedente si era scatenata nei confronti della compagnia un’ondata di richieste di rimborso, quando era apparso chiaro che si era spinta troppo innanzi nel suo abituale gioco speculativo. Sybille, tuttavia, solo nel 1355 deciderà di dichiarare guerra ai Buonaccorsi, probabilmente distratta dalle devastazioni della “peste nera”, che oltre un decennio aveva imperversato nella sua regione.
La spregiudicatezza dei Buonaccorsi balza con evidenza dalle testimonianze raccolte a Entrevennes, in un ambiente totalmente estraneo – geograficamente, culturalmente e socialmente – a quello dei mercanti fiorentini. Tali testimonianze costituiscono un documento straordinario per la comprensione del mondo contadino provenzale, che appare schierato senza esitazione a difesa della sua castellana. L’offesa recata alla loro castellana viene avvertita come un’offesa al loro sistema di valori, fondati sulla fiducia e sull’onestà. In questo senso, nello scontro tra Sybille e i Buonaccorsi si può leggere in controluce qualche fragilità manifestata dall’espansione commerciale fiorentina nella prima metà del Trecento. Nella parabola della compagnia, in effetti, la formidabile inventiva negli affari si intreccia con una mancanza di scrupoli che getta più di un’ombra su quell’idealtipo di mercante toscano analizzato anche da Max Weber.
Compagnie come quella dei Buonaccorsi erano sì costruite su una impareggiabile intraprendenza e ingegnosità finanziaria, da cui derivava il credito da essi goduto in tutta l’area del fiorino. Ma, come ha osservato Luzzati, fra l’economia dell’Italia centrosettentrionale e quelle dell’Italia meridionale, della Francia, della Germania e dell’Inghilterra, non vi era alcun abisso. Perché tutte erano fondamentalmente economie a base agricola, e la spaccatura – se c’era spaccatura – non era tra la Toscana e l’Oltralpe, ma semmai tra la Firenze delle compagnie e la Certaldo di frate Cipolla, fra l’Avignone dei papi e la Provenza dei piccoli castelli. Era sempre la campagna a pagare, soltanto che trionfava ora un ceto mercantile – all’inizio quasi esclusivamente italico – che rastrellava i redditi dei beneficiari delle fatiche contadine. E che, inoltre, monopolizzava l’amministrazione e la circolazione del denaro su larga scala, per imporre nuovi consumi e sollecitare nuovi bisogni.
In fondo, la battaglia di Sybille contro i Buonaccorsi è un sintomo delle reazioni negative suscitate da un “capitalismo in fieri” assai disinibito, che non esitava a scaricare sui clienti i danni e le beffe dei suoi tracolli. Ma quando la catena dei fallimenti – che tra il 1341 e il 1346 non risparmierà nessuna delle principali compagnie fiorentine – sembra travolgere le speranze riposte nel successo mercantile, cominceranno a farsi sentire le riserve sull’etica professionale degli homines novi della finanza. A volte ritornano, si potrebbe dire pensando alle vicende di questi ultimi anni.