I militari americani sono sempre più convinti che i quattro uomini dei Berretti Verdi uccisi in Niger siano caduti in un trappola ordita da un gruppo armato affiliato allo Stato islamico che aveva un complice con contatti tra gli statunitensi e con informazioni anticipate sui movimento dei soldati. L’opzione del doppiogiochista è uscita nelle rivelazioni ottenute dalla NBC, e confermata in massimo dalle parole del capo del villaggio dove è avvenuta l’imboscata letale, che a Voice of America ha detto che ai baghdadisti non sono mai mancati i link con alcune persone tra i suoi cittadini. Giovedì la Commissione Forze armate del Senato riceverà un briefing riservato sulla vicenda.
COSA È SUCCESSO
I fatti, per quanto noto finora. Il 3 ottobre un gruppo di una dozzina di Green Berets americani era nel villaggio di Tongo Tongo (sudovest nigerino, al confine col Mali), riposava lì dalla notte prima dopo un lungo pattugliamento, sembra avesse tenuto anche un incontro coi leader dell’amministrazione locale. Questo genere di meeting sono parte dei compiti che le squadre di special forces compiono in queste aree di crisi, dove giocano un ruolo misto tra il politico e il tecnico militare. La zona è descritta come a basso rischio, perché più che altro ci sono sorveglianze con droni su un ampio areale, e questi gruppi ristretti di specialisti più che azioni di guerra fanno raccolte di informazioni con cui poi indirizzano le forze armate nigerine. Finito l’incontro, gli americani sono stati intrattenuti nel villaggio e poi caduti in un’imboscata pesante: c’erano decine di miliziani, armati di mitragliatori e lancia-granate. I Berretti Verdi, che viaggiavano su pick-up civili, sono scesi dai mezzi e hanno risposto al fuoco, nonostante l’immensa inferiorità numerica. Poi sono arrivati degli elicotteri francesi (si trovano nell’area) e li ha tirati via da quell’inferno. Tre di loro sono rientrati senza vita in una delle basi segrete da cui partono queste missioni. Un quarto, lasciato solo dopo il recupero (non è chiaro il perché, e qui c’è un’inchiesta nell’inchiesta), è stato ritrovato due giorni dopo poco distante dal luogo dell’attacco: era morto. La sua bara è stata riconsegnata chiusa alla moglie per non far vedere le condizioni del corpo, si chiamava David Johnson, era un sergente (è lui il protagonista della storia nella storia).
IL CONTESTO
Il Niger si trova avvolto in un territorio dove sono prominenti i gruppi di ispirazione qaedista. Gli autori dell’attacco, i baghdadisti dell’Islamic State in the Greater Sahara (Isgs) sono un gruppo relativamente nuovo che ha fatto la propria baya al Califfo nell’ottobre del 2016. Contro i gruppi jihadisti, nell’area del Sahara (che va dal Senegal al Ciad), la Francia ha impostato una missione militare anni fa. Si chiama Barkhane, e coinvolge tremila uomini e centinaia di mezzi. Mirage francesi sono arrivati nel luogo dell’imboscata agli americani circa un’ora dopo l’inizio dello scontro a fuoco: solo in quel momento è arrivata la prima richiesta di rinforzi. Ma gli aerei non hanno potuto bombardare perché non avevano informazioni di intelligence sufficienti sugli obiettivi, e non sono riusciti a mettersi in contatto con i Berretti Verdi: hanno compiuto passaggi di bassa quota come deterrente.
LA GRANA POLITICA
La questione è apertissima: lunedì, il generale Joseph Dunford, capo delle Forze armate statunitensi, ha dichiarato di voler scoprire a tutti i costi cosa è accaduto, e di volerlo fare per gli americani e per i parenti dei soldati uccisi nell’attacco. Dai parenti, e dal corpo del sergente Johnson, si passa dalla delicatissima questione tecnica sul cos’è successo e sulle responsabilità (Chi ha sbagliato? Cosa è andato storto? Perché non avevano copertura aerea? Perché non è stato richiesto aiuto per la prima ora di fuoco? Perché Johnson è stato lasciato solo?), alla bega politica che ha coinvolto il presidente Donald Trump, diventando un altro spaccato dell’attuale Casa Bianca. Trump non ha voluto parlare dell’accaduto per otto giorni, fino a quando, il 16 ottobre, una giornalista gli ha fatto una domanda semplice: perché ancora non ha mai parlato pubblicamente della vicenda? Trump se l’è presa sul personale come spesso accade, ha trasformato la domanda in un’accusa, e ha risposto parlando dei suoi contatti personali con le famiglie dei soldati uccisi – non era a questo che si riferiva la reporter. Non è bastato non aver capito la domanda, dicendo di aver scritto delle lettere e che li avrebbe chiamati di certo prossimamente: al presidente è slittata la frizione e ha fatto un attacco personale a Barack Obama, sostenendo che lui e gli ex presidenti non erano soliti chiamare le migliaia di famigliari di soldati morti durante le precedenti amministrazioni. È una menzogna palese (una foto con una vedova di Obama per esempio), diventata rapidamente polemica – l’argomento dei caduti in battaglia negli Stati Uniti è da sempre molto sensibile – e sberleffo pubblico.
IL GUAIO CARPIATO
A quel punto Trump, fuori controllo, ci ha messo di mezzo anche il suo capo dello staff, l’ex generale dei Marines John Kelly, il cui figlio è morto in Afghanistan nel 2011 – un fatto personale su cui Kelly ha sempre chiesto la massima discrezione. Chiedetelo a Kelly se è stato chiamato da Obama!?, ha detto Trump (né Obama, né Kelly hanno commentato, poi Kelly è stato costretto a una conferenza stampa piuttosto personale per difendere il presidente). A quel punto la questione è diventata ancora più grossa perché una deputata Dem della Florida, Frederica Wilson, ha detto di aver saputo che Trump alla fine ha chiamato la vedova di Johnson, ma gli ha detto qualcosa come “sapeva a quello che andava incontro”, che è una cosa ancora più terribilmente sgradevole se si pensa che la donna è incinta. La Casa Bianca nega, ma l’imbarazzo era diventato pazzesco: dallo staff si diceva di non voler commentare i contenuti di una telefonata privata, ma il presidente ha preso Twitter e s’è sfogato dicendo di non aver detto niente di simile e che era tutta una fabbricazione dei democratici. A quel punto, poco dopo, la madre di Johnson ha detto di aver assistito alla telefonata e confermato che era vero che Trump era stato scortese con sua nuora: “Trump non ha rispettato mio figlio”. Epilogo triste: il Washington Post ha indagato e scoperto che Trump non solo contatta raramente le famiglie dei soldati morti negli ultimi mesi, ma in un’occasione ha fatto una promessa sgangherata, un assegno da 25 mila dollari di tasca sua da dare al padre di un militare ucciso in servizio, che però non aveva mai mantenuto prima di tutta questa bufera mediatica.