Domenica è bastato un singolo tweet al presidente americano Donald Trump per mandare in subbuglio la sua diplomazia e tagliare le gambe a una dichiarazione del suo segretario di Stato Rex Tillerson, il quale, durante una visita in Cina aveva annunciato che Washington e Pyongyang stavano intavolando contatti diretti (informazione anticipata in settimana da uno scoop definitivo, dopo varie voci nei mesi passati, del Washington Post).
IL TWEET DELLA DISCORDIA
Dice Trump al “nostro fantastico segretario” che è “wasting time“, tempo perso, provare a negoziare con Kim Jong-un, il dittatore nordcoreano che nel tweet del Prez va sotto il nomignolo “Little Rocket Man”: “Risparmia le tue energie, Rex!”. “La diplomazia non è un favore che offriamo, ma uno strumento cruciale per la sicurezza nazionale. Potus ha veramente sbagliato in questo caso, e il SecState dovrebbe dimettersi” scrive sempre su Twitter Richard Haass. Haass è il gran capo del Council on Foreign Relations, uno dei pochi a cui il presidente dà credito in fatto di politica estera, papabile, ai tempi, per incarichi importanti al dipartimento di Stato.
DISACCORDO O DISORDINE?
Non è la prima volta che tra la Casa Bianca e altre ali dell’amministrazioni (Pentagono, dipartimenti di Stato, eccetera) c’è disaccordo pubblico. Non la prima volta che succede sul dossier nordcoreano, che anzi può fare da caso di studio in questo “disarray“, disordine (per riprendere il termine con cui Haass descrive il mondo in un suo famoso libro). Stavolta il botta e risposta, davanti all’annuncio ufficiale fatto da Tillerson al cospetto dei cinesi, parte fondamentale dello sforzo per portare la crisi di Pyongyang verso la soluzione (e allo stesso tempo principale avversario globale), però rimbomba più del solito. Anche perché, nello stesso colpo, Trump ha centrato anche il capo delle Forze armate, il generale Joseph Dunford, che in uno statement ufficiale uscito martedì scorso aveva fatto sapere che l’opzione militare è soltanto di accompagnamento allo sforzo economico e diplomatico che il segretario di Stato sta mettendo in atto per arrivare a un negoziato.
MA C’È UN’OPZIONE MILITARE?
Le dichiarazioni di domenica rientrano nel pattern “madman” per le relazioni internazionali: ossia, Trump vuole mostrarsi agli altri, alleati o nemici, pazzo al punto da poter fare certe cose: per esempio, un attacco armato contro la Corea del Nord, evocato già varie volte, l’ultima durante l’intervento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. In quell’occasione Trump disse che avrebbe “completamente distrutto” il Nord, e Pyongyang – attraverso il facinoroso ministro degli Esteri – ha risposto che a quel punto si sentiva in diritto abbattere qualsiasi aereo americano si fosse avvicinato al proprio spazio aereo (il riferimento è a quei voli minacciosi che Washington manda per deterrenza sui confini, in esercitazioni congiunte con Tokyo e Seul) perché quella era una dichiarazione di guerra. La Casa Bianca allora, all’inizio della settimana passata, si è trovata costretta (circostanza surreale, a memoria mai accaduta nella storia) a rilasciare una dichiarazione formale in cui specificava di non aver mai dichiarato guerra al Nord. La retorica dura di Trump, in fin dei conti, non è che un bluff, fatto con uscite da madman diplomatico – tipo la distruzione totale, la Grande Armada, il fuoco e la furia.