La vicenda personale e politica di Donald Trump è ancora un libro aperto che, quasi ogni giorno, riserva nuovi colpi di scena. A qualcuno la maniera in cui sta conducendo la presidenza appare oscena o, nel migliore dei giudizi, inadeguata. L’idea di mandare la figlia, in rappresentanza degli Stati Uniti, al tavolo conclusivo del recente vertice dei G20 di Amburgo è apparsa offensiva, nei confronti dei capi di Stato e interlocutori internazionali, anche se era stata avallata dalla padrona di casa, la cancelliera Merkel. Se guardiamo al suo programma elettorale, per ora Trump ha portato a casa ben pochi risultati. L’abolizione dell’Obamacare impantana nelle secche del Congresso, la politica internazionale che oscilla fra le calorose strette di mano con Putin e la linea antirussa imposta dal Congresso, il grande taglio delle tasse rimasto un annuncio. Bisogna anche dire che non tutto ciò che viene raccontato dai media che gli sono antropologicamente ostili – giornalisti ancora lividi di rabbia per la sconfitta della loro beniamina Hillary – corrisponde al vero. Il tema delle fake news, per esempio, ha una doppia chiave di lettura: ci sono, è indubitabile, le “bufale”, le false notizie che circolano senza controllo in Rete ma c’è anche, altrettanto evidente, la progressiava e inarrestabile perdita di professionalità dei media tradizionali, sempre più tifosi, legati all’establishment che li remunera e di cui tutelano gli interessi, lontani da una rappresentazione oggettiva dei fatti.
Un esempio tra i tanti? Nel maggio 2017, a Taormina, alcuni giornalisti gridano allo scandalo, perché nel briefing finale del G7, quando tutti i leader tengono un breve intervento di sintesi, Trump non avrebbe indossato la cuffia per la traduzione simultanea, quasi volesse disinteressarsi di quello che gli altri avevano da dire. Le foto proveranno il contrario. Trump aveva solo chiesto un auricolare più piccolo che, effettivamente, indossava. Nessuno si è premurato di precisare la circostanza né, tantomeno, di chiedere scusa per l’inesattezza. All’arrivo con l’Air Force One a un vertice internazionale, sceso dalla scaletta dell’aereo, Trump manca la vettura presidenziale e prosegue dritto. “Gaffe” titolano alcuni media, come se non accorgersi dell’auto, per una semplice distrazione, fosse una gaffe. E, ancora, viene classificata come un’immancabile gaffe l’espressione rivolta alla premiere dame Brigitte Macron nell’incontro ufficiale all’Eliseo di qualche mese fa, “you are in such great shape” (Sei in ottima forma). Frase convenzionale, che milioni di persone pronunciano ogni giorno. Poco prima di decollare con l’elicottero Marine One, il vento spazza dalla testa di un marine impettito il cappello. Trump lo raccoglie e glielo rimette in testa. La scenetta viene vista quasi esclusivamente in Rete. Se fosse successo a Obama avrebbe fatto il giro del mondo, come tutti i suoi gesti, parte di una beatificazione permanente.
L’impressione è che l’accanimento quotidiano contro Trump, la sottolineatura di comportamenti, magari ascrivibili a scarsa eleganza ma comuni a tanti, faccia perdere di credibilità alle critiche serie che gli si possono rivolgere. La realtà, in particolare in una società come quella americana, è sempre molto complessa e articolata. L’immagine che viene data della presidenza Trump, soprattutto in Europa, scade nel grottesco, a cui il personaggio certamente contribuisce con i suoi comportamenti, ma che non offre l’insieme dei fenomeni in atto.
Ha osservato in proposito il filosofo Corrado Ocone: “Ho sempre pensato che Donald Trump, con la sua maschera improbabile e il suo stile fra il goffo e il provocatorio, non potesse essere liquidato come un semplice “incidente di percorso” della democrazia americana. E che non solo egli fosse la risposta sbagliata a domande spesso serie e ben poste, ma che anche molte delle sue risposte, fatta la tara della guasconeria e della semplificazione, fossero corrette e ineccepibili in una normale dialettica democratica».
L’opinione pubblica è molto più intelligente e attenta di quello che il mainstream presuntuoso e autoinvestitosi di una missione didattica crede. Agli elettori di Trump piacciono proprio quei comportamenti che i manuali del politicamente corretto censurano. Le minacce alla grande industria hanno effettivamente bloccato alcuni programmi di delocalizzazione e i big dell’industria automobilistica hanno iniziato nuovi programmi di investimento negli Usa. Gli indicatori economici generali sono tutti positivi, a cominciare dall’occupazione e da Wall Street, che ha conseguito una serie di record. La conferma della nomina alla Corte Suprema del giudice Neil Gorsuch è stata un successo politico. L’Isis ha perso Mosul e la Siria è stata colpita da missili americani in risposta a un presunto attacco chimico, misura che Obama aveva solo teorizzato. La presunta politica filorussa di Trump è stata smentita perché le sanzioni nei confronti di Mosca sono state confermate e per certi versi inasprite.
Per il resto, sono tante le critiche che si possono fare, soprattutto per lo stile decisamente poco presidenziale. “Non pensavo fosse così faticoso” ha ammesso lo stesso Trump. Sul New York Times il commentatore politico David Brooks ha osservato: “Le scelte politiche sono più normali, meno rivoluzionarie, e la sua catastrofica incompetenza si è assestata su un livello di inadeguatezza”.
Sappiamo, e risulta quanto mai evidente, che Trump, come un monarca, oscilla tra le pressioni dell’ala populista e intransigente di Steve Bannon, lo stratega elettorale ora licenziato, e quelle della parte più morbida, pragmatica e newyorkese guidata da Jared Kushner. Ogni giorno il presidente, soprattutto di buon mattino, lancia la sua razione di tweet come se stesse ancora in campagna elettorale. Molto spesso dà l’impressione di non aver colto il passaggio tra il prima e il dopo.
Trump ha gestito male, in termini ondivaghi e contraddittori, la vicenda degli scontri a sfondo razziale dell’agosto 2017 a Charlottesville, prima censurando e poi facendo marcia indietro. Tuttavia, quasi nessun giornale europeo ha riferito la posizione espressa sin dall’inizio da Steve Bannon in un’intervista a The American Prospect. “L’etnonazionalismo è perdente, questi ragazzi sono una massa di clown, credo che i media lo esaltino troppo, e noi dobbiamo aiutarci a schiacciarlo» ha detto l’ex ideologo del presidente.