Lo scorso luglio il Presidente della Società Storica Russa ha tenuto un discorso su come il paese dovesse affrontare il centenario della Rivoluzione: bisogna rimuovere le tendenze estremiste della Rivoluzione e trovare in essa invece un senso di di unità nazionale.
Che il Presidente degli storici russi sia nient’altro che Sergey Naryshkin, direttore dello spionaggio estero russo e fra i collaboratori più stretti di Vladimir Putin, non può che far riflettere su come lo storytelling degli eventi storici sia una delle direttrici della prassi politica del Cremlino.
Gli anni successivi alla Guerra Fredda videro l’inizio di mutamenti drammatici nelle identità dei Russi e dei simboli che la incarnavano: si racconta che in alcuni edifici governativi la bandiera fosse messa al contrario.
E’ da qui la ricerca di nuove coordinate ideologiche per la società russa tramite nuovi linguaggi che potessero rimandare alla grandezza della Russia: una linea che collega la Rus’ di Kiev, Pietro il Grande, la mobilitazione nazionale contro i tedeschi e Stalin, l’epopea dei “bianchi” nell’afflato millenarista della Russia vista come “Terza Roma”.
Un tentativo di cicatrizzare le ferite del post-comunismo, in una precisa strategia di riscrittura geopolitica e ricomposizione psicologica di fronte i problemi epocali che avversavano l’inquietante “Russia di Weimar”.
È in questo quadro d’insieme che bisogna valutare quel gesto di Putin, divenuto mediatico qualche anno fa, quando sul Washington Post venne diffusa la notizia che Putin avesse inviato in dono ai governatori regionali una trilogia di libri che includeva “Filosofia della diseguaglianza” di Nicolaj Berdjaev, “Giustificazione del Bene” di Soloviev e “I nostri compiti” di Ivan Ilyin.
Con il ritorno di Putin alla presidenza, nel 2012, l’approccio conservatore e tradizionale del Governo russo diviene ancora più marcato. Una presa di distanza ancora maggiore dalla decadenza etica europea, allontanatasi dalle radici cristiane, e la definizione di un posizionamento conservatore a livello internazionale.
Al centro del linguaggio putiniano, vi è un attacco al relativismo morale: “soccombendo al secolarismo sull’Occidente sta scivolando nell’oscurità” ha detto in un incontro pubblico.
La comunicazione visiva del Presidente è profondamente mutata, per renderlo un “piccolo padre”.
Putin è costantemente ritratto in maniera “muscolare”. Emblematica immagine è quella del pellegrinaggio al Monastero del Monte Athos, sacro per gli ortodossi, in cui è alloggiata la sedia su cui poggiava lo Zar.
Seppur non sia strettamente un ideologo, il Presidente si è attorniato costantemente di figure chiave che potessero aiutarlo nella formulazione di questa nuova anima russa.
Ci sono molti che scrivono di storia, altri che fanno la storia tramite i propri scritti.
Alexander Solzhenitsyn è uno di questi ultimi.
L’autore di “Arcipelago Gulag“ e “Ivan Denisovic”, colui che per decenni sfidò il regime comunista, dopo aver sperimentato la durezza dei campi di concentramento, è stato l’uomo che forse ha influito di più sulla visione del mondo dell’attuale presidente russo.
E’ Ljudmila Saraskina, in una monumentale biografia di 1432 pagine dal titolo “Solženicyn”, a raccontare i “frequenti, stretti, ma non sempre pubblicizzati” incontri tra Solženicyn – il grande vecchio, l’eroe del popolo russo nemico del comunismo, ma deluso dai nuovi politici “democratici” – e il giovane uomo politico che sembrava destinato, come tanti altri, ad essere una meteora, con molti nemici, in un paese in decomposizione.
Il primo incontro avviene il 20 settembre 2000 a Troice-Lykovo: sono i coniugi Putin a recarsi in visita a casa dello scrittore. Il giorno seguente Solženicyn, nel programma Vesti, dichiara di aver conosciuto un uomo dall’intelligenza vivace e pronta, “preoccupato del destino della Russia e non del potere personale“. Che ironia: un ex agente del KGB in visita ad una ex vittima del KGB.
La notizia occupa per molto tempo i giornali russi, che dovranno tornare spesso sul tema, visto che i due continueranno a vedersi per anni, talvolta pubblicamente, talvolta in modo riservato.
Cosa insegna Solženicyn al suo giovane ammiratore? Essenzialmente tre cose: che occorre frenare la catastrofe demografica, che fa perdere alla Russia circa un milione di persone l’anno e che è figlia del nichilismo comunista ma anche di quello occidentale che lo scrittore aveva vissuto durante gli anni dell’esilio forzato in Vermont; che bisogna rivedere le privatizzazioni selvagge realizzate nell’epoca di El’cin, e gestite a vantaggio di pochi, ai danni del popolo; che è necessario impedire che il passaggio dal comunismo alla democrazia liberale segni la morte definitiva dell’anima religiosa russa, traghettando il paese dal materialismo comunista al consumismo materialista occidentale.
Preconizzava che dalla caduta dell’Unione Sovietica sarebbe risorto il più genuino spirito della Russia profonda, della Grande Madre Russia.
Una filosofia politica che è parte integrante del pensiero dei circoli della intelligencija post-sovietica, da dove viene Aleksandr Gel’evic Dugin.
Nei primi anni ’90 ha animato il Fronte nazionalbolscevico contro El’cin, poi ha fondato il partito Eurasiatico. E’ considerato uno dei “consiglieri” più vicini ai circoli putiniani, avendo ricoperto incarichi in posizioni strategiche dell’accademia russa.
Il suo “Trattato di geopolitica” è studiato dai giovani ufficiali nelle Accademie.
A Dugin dobbiamo una rielaborazione ed integrazione del pensiero di Evola e Guenon, della scuola eurasiatica russa di Trubeckoj e Gumilev e del bizantinismo di Leont’ev definita “Quarta Teoria Politica” e contenuta in un saggio omonimo pubblicato in Italia dalla casa editrice Nova Europa.
Dugin postula il superamento della modernità abbattendo i fondamenti teorici di liberalismo, comunismo e fascismo per opporsi al neo-liberalismo della postmodernità
Egli invita a riscoprire valori come la giustizia sociale, la comunità di popolo, la libertà della persona nell’ottica di un nuovo progetto culturale. Il filosofo russo propone così la riscoperta di un nuovo soggetto politico globale, che porti al multipolarismo, affidando questa “missione” proprio a Vladimir Putin: un forte valore simbolico attribuito alla forma imperiale di stato, alla centralità della dimensione eurasiatica della Russia; il peculiare significato della stessa derzava come simbolo dell’autorità dello zar e raffigurazione dello stato russo, già colto da Dugin in “Continente Russia”; il ritorno dello studio della “geografia sacra” come teoria sottostante la politica estera muscolare.
Nei corridoi del potere non sono rimasti inascoltati questi fermenti culturali.
Personaggio eclettico, conosciuto per la sua vivacità e creatività, Vladimir “Slava” Surkov è uno degli “scrittori” del sistema politico russo.
E’ sua la narrazione della presidenza di Putin come presidenza della “stabilità” posta in maniera antitetica all’era del caos crepuscolare degli anni ’90.
Nato ceceno col nome di Aslambek Dudayev, si è ufficialmente fatto cambiare il nome nel 1969 a seguito dell’abbandono del padre e del successivo trasferimento nella regione di Lipetsk di cui era originaria la madre, Zinaida Surkova.
Poco si sa del periodo passato sotto l’Unione Sovietica.
Qualcuno afferma che abbia servito la leva sotto il comando della GRU, il potente servizio segreto militare.
Una carriera strabiliante lo attende alla caduta dell’URSS.
Da attore teatrale diventa velocemente responsabile delle pubbliche relazioni di
Mikhail Khodorkovskij e, dopo un breve passaggio alla TV nazionale, diventa vice capo dello staff di El’cin.
Ha strutturato la “verticale del potere”: prima costruendo il partito, poi i movimenti di supporto.
Un “Rasputin” dalle passioni da nerd: ama Allen Ginsberg, scrive racconti, poesie e canzoni per il gruppo rock Agata Kristi, si interessa di tecnologia e filosofia.
Chi lo ha frequentato racconta che sulla sua scrivania campeggia un ritratto di Putin e ai lati quelli del Che e di Tupac.
Ha pubblicato sotto lo pseudonimo di Natan Dubovitsky romanzi e racconti.
In “Quasi zero” racconta di Iegor Samokhodov, un giovane pubblicitario.
Come il giovane “Slava”, il protagonista è dapprima uno squattrinato poeta e poi riesce ad entrare nel “sistema” come ghostwriter ed esperto di pubbliche relazioni.
In un passaggio del libro una giornalista d’opposizione gli dice di odiare tutti coloro “al potere”, questa “untuosa folla” di ministri, deputati e agenti dell’intelligence.
Le risponde il protagonista del libro: “Non è il potere che odi, ma la vita” e continua spiegandole come le ingiustizie e l’uso arbitrario della forza sono parte della vita stessa e con essi occorre convivere non potendole distruggere.
Nel racconto breve “Senza Cielo” si racconta di uno scenario post-apocalittico in cui la guerra è combattuta con diversi mezzi, dalla materialità dei blindati alla forza dell’informazione.
Forse, un’allegoria delle esplosive situazioni in Georgia e Ucraina, di cui Surkov è consigliere speciale del Presidente?
Nel suo ultimo editoriale su Russia Today, parla della “crisi dell’ipocrisia” in Occidente.
“Una società è stabile se tutti gli elementi trovano un linguaggio comune, e quindi è possibile mentire” -dice il consigliere- “L’ipocrisia è connaturata alla società, è un elemento naturale”.
Quando essa è disvelata arriva qualcuno che dice “Ci hanno ingannato!” e comincia un processo di transizione, fino all’accettazione di un nuovo compromesso fra le diverse posizioni.
L’Occidente ha, però, esagerato ed è diventata una situazione insopportabile.
Quando il linguaggio è in fase di decostruzione -continua Surkov- un numero illimitato di energie sono liberate.
Si può addirittura arrivare ad un conflitto.
Alcuni flussi sono incontrollabili e possono portare al caos.
Come risultato, possono originarsi nuove forme di governo.
“E’ possibile che domani da tutto questo caos e tutte queste menzogne”, afferma il Richelieu del Cremlino, possano ergersi nuovi imperatori.
Forse, conclude con un senso distopico, “uno zar d’Occidente, il fondatore di una dittatura digitale, un leader aiutato dall’intelligenza artificiale come già predetto dai fumetti. Perché i fumetti non dovrebbero diventare realtà?”.
Al Cremlino hanno capito la potenza delle idee.