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Viaggio nel palazzo ex Inpdap occupato seguendo le parole di Papa Francesco

Papa Francesco ricorda spesso alla sua Chiesa l’importanza di abitare le periferie, umane, geografiche ed esistenziali. Cosa questo significhi può essere spiegato con un racconto. Quando l’allora prefetto di Roma si orientò per lo sgombero di tutte le occupazioni romane, un gruppo di cittadini che hanno trovato riparo in una stabile caduto in disuso decise di cominciare uno sciopero della fame. Un giorno si riunirono alcuni di loro, cristiani e musulmani. Con loro c’era un prete, Paolo Lojudice, oggi vescovo ausiliare di Roma, che gli disse, “la casa è un diritto, ma attenzione a farsi giustizia da sé.” È questa la porta stretta attraverso la quale si passa soltanto abitando con loro, con chi è in difficoltà estreme. Per ricostruire il filo che unisce il diritto, l’urgenza e la legalità. Come? Accompagnando, dice Papa Francesco. Forse quello stabile dove si fece lo sciopero della fame, l’ex palazzo dell’Inpdap di Roma, è diventato un laboratorio? Vediamo.

“Il nostro obiettivo si chiama rigenerazione, valorizzazione del patrimonio comune, un impegno che abbiamo cominciato a perseguire quattro anni fa. In quei giorni, per la prima volta in vita mia, mi sono sentito incuriosito da quanto diceva un papa, questo affascinante argentino che ha scelto di chiamarsi Francesco.” Il racconto di quest’uomo, uno degli animatori del movimento per la casa “Action, diritti in movimento” prosegue nella ricostruzione di come, ogni volta che parlava Bergoglio, o che leggesse qualcosa su di lui, la sua curiosità aumentasse, come anche quel senso che non sa definire ma che forse è semplicemente fastidio: il fastidio, per un sopravvissuto del ‘68 che fu, di sentirsi interessato da quanto dice nientedimeno che lui, il papa… “Tra i miei compagni in questa avventura percepivo lo stesso interesse. E una volta, quando mi sono ritrovato a parlare con don Matteo, e ho pensato di parlargli di noi, ho capito che c’era qualcosa di importante, davvero. Il tempo mi aveva insegnato che nell’impegno per i Rom, che sono davvero gli ultimi degli ultimi anche se quasi sempre sono italiani, mi ero ritrovato sempre e soltanto con la Caritas e Sant’Egidio. Don Matteo l’avevo conosciuto così, lavorando con i rom. Ma mica gli avevo detto dell’Inpdap, questo gigante di otto piani nel cuore di Roma per il quale nessuno aveva un’idea”.

Chi parla così a Roma è conosciuto come “Paolone”, lo chiamano tutti così. È stato lui ad affiggere, nell’androne dell’ex Indpad, la gigantografia di un articolo su don Matteo, cioè monsignor Matteo Zuppi, pubblicato quando Francesco lo nominò vescovo di Bologna (“arcivescovo – mi ha corretto lui – don Matteo è arcivescovo, non ti sbagliare!”). Quell’articolo, se non sbaglio, è intitolato “il vescovo amico degli sfrattati.” Amico degli sfrattati sembra un titolo corretto, veritiero, visto che mentre passeggiavo tra i corridoi dell’ex Inpdap qualcuno mi ha detto che don Matteo è tornato a trovarli qualche volta, anche dopo il trasferimento a Bologna. È con lui, con quell’amicizia, che ha preso corpo il desiderio di capire sentendosi capiti? “Noi vogliamo contribuire – ha proseguito Paolone – alla rigenerazione, alla riqualificazione del patrimonio comune. Meglio dell’idea di un costruttore, il ben noto Nattino, a cui in un primo momento era stata affidata la ricerca di una soluzione e che aveva ipotizzato la solita privatizzazione offrendo l’edificio al fondo Blackstone, che ha il controllo del 7% del debito nazionale. Per fortuna non è andata bene e così è nato un confronto, un dialogo, nella ricerca del bene comune”, mi ha detto usando parole che probabilmente don Matteo deve aver usato sovente con lui.

“Abbiamo avviato proposte, confronti con gli enti locali, con le università, i centri di ricerca, il quartiere, i commercianti, la cittadinanza. E, visto che nessuno ha rivendicato la proprietà né presentato denuncia, siamo entrati in una zona grigia, nella quale abbiamo cercato di fare il meglio per tutti e dalla quale vorremmo uscire contribuendo a un servizio che sia tale per tutta la collettività. Qui alloggiano, in ex uffici dismessi, ben 178 famiglie di 18 nazionalità diverse: ci sono italiani, europei, extracomunitari. Abbiamo tanta gente che si arrangia con il lavoro che trova e che vuole contribuire alla ricostruzione di uno spazio urbano funzionale, in spirito di servizio per la città e collaborazione con le istituzioni e, lo sottolineo perché per noi è molto importante, con la popolazione del quartiere. Ancora ricordo il giorno in cui ne abbiamo parlato, dei problemi angoscianti del presente e dei sogni per il futuro, con una consacrata di Santa Croce in Gerusalemme. Lei ha fatto avere una nostra lettera al papa, che le ha risposto benedicendoci e dicendo di pregare per noi”.

Chi gli avrà mai detto che avrebbe pregato per lui, a Paolone? Oggi lui dà l’idea di aver letto incredulo quelle parole, e di custodire quella lettera come una reliquia. Poi ha proseguito il suo racconto: “Quando Bergoglio ha convocato il Giubileo della misericordia abbiamo deciso e Tarzan, uno di noi, è andato al terzo incontro con i movimenti promosso da Papa Francesco.” Ben noto alle cronache romane, per alcuni Tarzan è un pericolo, per altri un santo. Misteri dei mondi non comunicanti, che “se comunicassero- mi ha detto un amico che frequenta il Vicariato – scoprirebbero che, probabilmente, non è né l’uno né l’altro”.

“Con don Matteo prima e poi con don Paolo, il nuovo vescovo ausiliare nominato dopo il trasferimento di don Matteo a Bologna, abbiamo continuato a cercare un futuro diverso, migliore per tutti. Vieni a vedere: questo salone era l’archivio dell’Inpdap, adesso è stato affrescato dai migliori artisti di strada di Roma, è uno spazio artistico a disposizione della cittadinanza, di tutto il quartiere, per musica, danza, pittura, arte! Qui invece c’è l’auditorium, dove ospitiamo partiti, gruppi ecclesiali, poeti, movimenti, associazioni di zona. Domani ci sarà un concerto di musica classica (ho sentito dire ci sia andato anche un alto dirigente della Cassa Depositi e Prestiti, nda). Gira di qua: ecco, questa era la mensa, ora qui si produce birra, sotto la guida di quel ragazzo, l’ex scenografo del Teatro Valle: e si fa da mangiare, strutturando con l’aiuto di tanti uno spazio “caldo”, d’incontro. Dai, andiamo al piano di sopra. Passa la vetrata: il gruppo ecclesiale “sentieri verso l’altro” ci ha dato il materiale necessario per fare questi laboratori di sartoria, tipografia, restauro. I loro volontari vengono ogni giorno e insegnano a chi vuole imparare come si usano queste macchine, questi strumenti: anche Mamma Rosa, che ha settant’anni, ha imparato e adesso si è comprata un computer. Fa piccoli lavori, ma li fa. Altri studiano come si recuperano i dipinti, come si restaura un affresco, o altro. Qui invece insegnano italiano per stranieri, tutti devono potersi esprimere per poter lavorare. Ci sono anche giovani o anziani che vivono nel quartiere che vengono qui ai corsi, tutti gratuiti, anche se non hanno il riconoscimento pubblico del corso di formazione professionale. Ma chi si avvicina a una bottega più che il titolo deve far vedere quel che sa fare”.

Proprio allora è arrivato Vittorio, un volontario che insegna a usare i programmi per imparare a fare piccoli lavori tipografici, stampare su magliette, impaginare un volantino pubblicitario, fare un biglietto da visita. “Qui i ragazzi impaginano “Scomodo”, rivista autogestita studentesca”, mi ha detto aspettando che arrivassero i suoi alunni. La prima ad arrivare è stata una signora peruviana. “Il computer è l’unico strumento che può aiutarmi a fare qualcosa di utile per dare una mano a mia figlia: è lei che lavora, io ho difficoltà di movimento, mi gira sempre la testa, ma quando avrò imparato la potrò aiutare, finalmente”.

Proseguendo il giro si entra in sala restauro, piccoli mosaici sono stati portati qui da Santa Croce in Gerusalemme. “Giù di là ci sono gli uffici, lo sportello per migranti, quello per i lavoratori precari, poi ci sono le stanze dell’Associazione Padre Gabriele, loro si occupano della scuola popolare, aperta a tutto il quartiere ovviamente, della distribuzione dei generi di prima necessità ai senza fissa dimora, del centro di distribuzione alimentare per chi è in difficoltà”.

“Vite di scarto” è un titolone diffuso nei piani bassi del palazzo ex Inpdap: “Bauman e Bergoglio ci piacciono”, sento dire più volte, da tanti, mentre mi raccontano della proiezione del film su Francesco, dell’auditorium per prove che è stato allestito unendo diversi saperi raccolti intorno a un progetto comune. “Qui all’ex Inpdap ci si riunisce una volta a settimana. Ognuno può fare la sua proposta, anche di un’iniziativa che intende svolgere lui, figurarsi. Ma le decisioni si prendono insieme, nel nome del bene comune. Se l’idea convince, rientra in un percorso di riqualificazione e crescita utile a tutti, va bene, si fa”.

Paolone passeggia assorto, saluta quasi sopra pensiero chiunque passi nel corridoio. Poi dice: “A noi interessa contribuire a rimettere in piedi Roma, dare una mano al quartiere, e ripartire insieme. All’inizio non è stato facile, ora vediamo che tanti esercenti ci considerano una risorsa, non un problema, si aprono nuove attività, e siamo contenti anche per loro. Riqualificare questo spazio, integrarci, aiutare, questo è il nostro obiettivo. Roma è una città con gravissimi problemi abitativi, eppure ci sono interi quartieri vuoti, completamente disabitati.” Pensare di risolvere il problema costruendo i tanti Corviale, depositi per poveri ai margini della città, è stato un errore. All’ex Inpdap, ho cominciato a ipotizzare visitandolo, si cerca il progetto di una città anche solidale, che recuperi in edifici dismessi come questo chi può contribuire a ricreare la sua vita e uno spazio di proprietà pubblica. “Sì. Ne abbiamo parlato con quelli delle Università, da Tor Vergata a Roma3, che hanno presentato agli Enti Locali un progetto che ci piace tantissimo, sul quale hanno lavorato venti architetti. È importante coinvolgere le Università nel grande tema del territorio e del suo recupero, e siamo felici di farlo perché serve un’economia trasformativa, nella quale far decollare una nuova idea di città, basata sul benessere più che sul profitto. Il benessere dell’imprenditore, del lavoratore, della cittadinanza.” Recuperare la città vuol dire anche recuperare i suoi abitanti, e non si può pensare che in sacche di povertà come questa oltre al bene non ci sia anche altro, come accade anche altrove. E ho pensato al piccolo spaccio, al consumo, o altro. Il problema è capirlo, curarlo, e farlo “abitandoci”, direbbe chi è più bravo di me.

È difficile allontanarsi da questo edificio, posto a uno strano confine tra legalità e illegalità, tra inclusione ed esclusione: uscendo, ma lentamente, ho intercettato per caso una telefonata alle suore del Sacro Cuore, per fissare la serata di letture sacre concordate. “Il fatto di avere qui dentro un’umanità proveniente da 18 paesi fa sì che ci siano quelli dei paesi di maggiore devozione, che apprezzano molto le letture sacre, ma tanto questi quanto gli altri apprezzano molto anche le feste popolari, serate folkloristiche, che organizziamo nell’auditorium, insieme alle feste studentesche, a performance teatrali, prosa e tanto altro”.

Uscendo non ho potuto non fermarmi ancora una volta, per leggere un manifesto scritto a mano, nel quale si cita ancora Jorge Mario Bergoglio. E mi sono chiesto se questo palazzone, un po’ tetro, non stia diventando il laboratorio romano di una nuova legalità, che chiamerei la legalità inclusiva, nella quale l’essere finiti in difficoltà non esclude, spinti sempre più fuori e avvolti nel rancore, ma l’occasione di un incontro che aiuti a rialzarsi, ripartire, rientrare nella società, sospinti a collaborare con la riqualificazione dalla fiducia di chi ci riconosce né pericoli né santi. La teologia dei poveri di Jorge Mario Bergoglio, una teologia che abita diverse periferie, forse la si può cominciare a intuire così.

 

(Foto di Riccardo Cristiano)



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