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I purgatori tributari, i paradisi fiscali e l’inferno dell’ipocrisia

Nelle televisioni e nella stampa cartacea infuria l’ultimo scandalo mediatico su evasione ed elusione tributaria internazionale. Riguarda anche la Regina Elisabetta II del Regno Unito. Più di un quotidiano ha pubblicato elenchi di italiani (e stranieri) che avrebbero messo al riparo capitali in “paradisi” tributari od avrebbero localizzato, sempre in “paradisi”, le sedi di aziende grandi e piccole ed anche le loro imbarcazioni da diporto.

Non voglio sembrare difensore dell’evasore o dell’elusore, ma credo occorra distinguere tra valori (e giudizi) etici e ciò che è illegale. Le scale del paradiso (anche tributario) possono essere difficili per chi non segue quelli che sono i valori etici della società in cui viviamo, ma non devono essere confuse con quelle della illegalità. Altrimenti si fa di qualsiasi erba un fascio e si finisce in quella notte in cui tutti i gatti sono bigi.

Occorre pensare che, sino allo scorso settembre, un lungo elenco di Stati od autonomie all’interno di entità statuali (Antigua, Aruba, Isole Vergini, Cayman, Grenada e Jersey, Isola di Man, Liechtenstein, Mauritius, Isole Marshall e Singapore) mantenevano il segreto bancario e non erano tenuti ad informare il fisco (nazionale o straniero) dei conti correnti e di deposito (e dei fondi) di non residenti nelle loro banche. Quindi, per questi Paesi era perfettamente lecito e legittimo essere “Paradisi tributari” grandi o piccoli. In numerosi Paesi Ocse, è sufficiente dichiarare quanto si ha all’estero; si è esenti da tassazione sugli averi all’estero se sono stati là costituiti o creati o se sono stati esportati in modo legale. Nell’età dell’integrazione economica internazionale, si spostano capitali enormi anche solamente con un click di un cellulare. È impossibile frenare questo processo senza recare danni elevatissimi alla crescita ed allo sviluppo. Occorre vigilare che il trasferimento sia legale, non fare moralismi tartufeschi e mettere questo o quello alla gogna. Essenziale distinguere il “reato” dal “peccato”.

È essenziale vigilare che le misure per reprimere questa o quella elusione od evasione siano efficaci e non costino più di quanto non rendono. Ad esempio, tra  i tentativi di combattere elusione ed evasione tributaria ci sono gli strumenti avanzati messi a punto dagli Stati Uniti in questi anni: il Fatca (Foreign Account Tax Compliance Act) e il Crs (Common Reporting Standard). In vigore, per quanto riguarda l’Italia, dalL’1 luglio 2014, il Fatca nasce su impulso del governo americano dopo anni di discussioni e tentativi di giungere a un accordo in seno all’Ocse. Oggi vi aderiscono quasi tutti i Paesi avanzati ad economia di mercato e ad esso si accompagna il Crs (Common Reporting Standard). In breve le banche e gli altri operatori finanziari devono inviare alle agenzie delle entrate nazionali le informazioni sui conti dei loro clienti. Per i cittadini americani, i dati vengono trasmessi ad un ufficio speciale del fisco perché li esamini e, se del caso, si rivolga alle agenzie dei singoli Paesi per appropriata azione.

Funziona? Lo scorso settembre, l’Università del Texas ha pubblicato una “guida” curata da un tributarista di fama internazionale, William Byrnes, che esamina gli effetti dei numerosi accordi intergovernativi scaturiti dal Fatca dal punto di vista del fisco americano. I primi anni di vita dello strumento indicano che, nonostante le penali fortissime previste dalla normativa, l’insieme di accordi non ha generato alcun gettito aggiuntivo significativo. Anzi il gettito da misure specifiche (pre-Fatca) per incoraggiare il rientro di capitali è diminuito di alcune centinaia di milioni di dollari. Ancora peggio, mentre prima del Fatca 1,1 milioni di americani residenti all’estero presentavano la dichiarazione dei redditi con relativa modulistica, all’ultima conta se ne sono presentati solo 300.000. Il fisco americano ha dovuto aprire un ufficio speciale a Dallas per il Fatca incorrendo in costi aggiuntivi. I consolati americani si sono trovati affollati di persone con doppia cittadinanza che chiedevano di lasciare quella americano: hanno dovuto assumere personale ed affittare uffici, nonché aumentare da zero a 4mila dollari gli oneri per chi vuole lasciare la cittadinanza americana. In breve, sino ad ora sulla scala del paradiso Fatca ci è fatti solo male.


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