Il difficile dialogo tra governo, sindacati e società sulle pensioni trae origine da due fenomeni. Da un lato il generoso sistema previdenziale accumulatosi negli anni che, specie grazie alle possibilità di accesso anticipato alle prestazioni, ha depositato una forte incidenza della spesa sul Pil poi attenuata dai correttivi introdotti dai governi Berlusconi con, nel mezzo, il passo indietro di Prodi. Dall’altro, la rigida riforma del 2012 che, senza disporre una fase di transizione, ha drasticamente elevato le età di pensione come in nessun altro Paese. E da tanta rigidità si sono scatenate pressioni sociali che i governi successivi hanno tradotto in deroghe con impegni di spesa prossimi ai 20 miliardi. Ma queste hanno accentuato le disparità di trattamento nella stessa generazione secondo criteri fortemente discrezionali come le ben otto salvaguardie di “esodati”, i “precoci”, i bancari, i giornalisti ed altri.
Il capitolo della previdenza è quindi rimasto aperto tanto sul piano dell’equilibrio finanziario quanto su quello della coesione sociale anche perché si sono venuti modificando i presupposti delle riforme. La crescita dell’economia appare troppo moderata e poco strutturale. Il mercato del lavoro non consente più percorsi lavorativi e versamenti contributivi continui. E’ così cresciuta la propensione a porre a carico del bilancio dello Stato una parte significativa della spesa previdenziale integrando la fonte contributiva dei lavoratori.
Il governo presenterà ora nella manovra altre opinabili deroghe alle età di pensione come gli strani “lavori gravosi” che non hanno alcuna base scientifica e, come tali, saranno ben difficilmente accettabili dagli altri. Le opposizioni oscillano tra la generica volontà di “cancellazione della legge Fornero” e la promessa di una prestazione minima per tutti di 1000 euro garantita dalla fiscalità generale.
Ora il nodo vero è la individuazione di un senso nelle ulteriori riforme, tale da consentire insieme la sostenibilità finanziaria e sociale. Ci possono aiutare i buoni principi ed il criterio di osservazione della realtà. Nell’immediato emerge la difficile condizione delle donne adulte. Hanno visto di colpo elevata di oltre cinque anni l’età di pensione di vecchiaia, non hanno frequentemente accesso alla anzianità contributiva per i percorsi lavorativi discontinui, hanno carichi di famiglia, difficilmente rimangono occupabili fino a 67 anni. Possiamo ipotizzare per loro un rallentamento congiunturale della maggiore età di uscita, come in Germania.
Possiamo invece correggere strutturalmente il sistema contributivo premiando le forme di vita attiva socialmente rilevanti, ovvero ponendo a carico del bilancio i contributi figurativi per le fasi di procreazione, di cura degli altri, di apprendimento, con un più agevole recupero anche per il passato dei relativi periodi. A ciò si può aggiungere un più esplicito favore fiscale per i versamenti volontari tanto del lavoratore quanto del datore di lavoro in modo da incrementare le entrate del sistema previdenziale e consentire di coprire i vuoti contributivi.
Ogni soluzione insomma deve concorrere a dare un senso ad un modello che forse un senso non ce l’ha… più.