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Perché non c’è alternativa a Merkel in Germania

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Non c’è nessuna alternativa politica in Germania: Angela Merkel andrà avanti sulla rotta tracciata in questi anni, tra mercantilismo ed ordoliberismo, senza se e senza ma, per restituire a Berlino il ruolo di Grande Potenza Mondiale. Gli orrori del nazismo sono stati sotterrati, definitivamente: non c’è più alcuna colpa da espiare. Solo orgoglio da rivendicare.

È per questo che, domenica scorsa, nessuno si aspettava il fallimento di due mesi di trattative in vista della formazione di una coalizione di governo a quattro, tra CDU-CSU, FPD e Verdi.

Tante sarebbero, ora, le incertezze sul futuro: se, o piuttosto come, Angela Merkel riuscirà comunque ad assumere un quarto mandato da Cancelliere, considerando che si è dichiarata subito contraria ad un governo di minoranza, preferendo a questa instabilità nuove elezioni politiche, e candidandosi ancora una volta alla testa della coalizione CDU-CS; se, invece, si tornerà ad una nuova grande coalizione con i socialisti dell’SPD, preoccupati di lasciare gli incarichi di governo e soprattutto pressati dall’invito rivolto a tutti i partiti dal Presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmeier, affinché si assumano in pieno il proprio ruolo istituzionale e non se ne sgravino irresponsabilmente rinviando ogni scelta al corpo elettorale.

Sono possibili cambi di mano: un Cancellierato a Wolfang Shaeuble, l’inossidabile ministro delle finanze appena assurto alla Presidenza del Bundestag, ed una notte dei lunghi coltelli in casa socialdemocratica con il defenestramento di Martin Schulz, cui si attribuisce troppa fretta nell’aver negato ogni possibilità di riedizione dell’accordo di governo con la CDU-CSU.

Si guarda fin troppo alla Germania per il suo ruolo economico e politico internazionale, considerando solo a tal fine le geometrie partitiche e le possibili coalizioni di governo, ma trascurando un dato di fondo essenziale: il massiccio spostamento a destra dell’elettorato tedesco. Un evento indesiderato da sempre, seguendo il monito di Franz-Josef Strauss, l’indimenticabile leader cristiano-sociale bavarese, secondo cui mai ci sarebbe dovuto essere in Germania un partito a destra del suo. Ed invece, nelle elezioni politiche dello scorso settembre, l’Afd, formazione della destra non europeista, ha raccolto il 12,6% dei suffragi riuscendo a far eleggere al Bundestag 94 candidati sui 709 seggi attribuiti nel complesso. L’FPD di Christian Lindner ha ottenuto l’11,3% dei consensi, con 80 deputati. Alla destra della CDU-CSU, che ha ottenuto in questa tornata appena il 32,9% dei voti (perdendone l’8,6% rispetto al 2013) c’è dunque il 23,9% dell’elettorato.

Non è casuale, dunque, che domenica scorsa, quando il leader liberale Christian Lindner si è alzato dal tavolo affermando che è “meglio non governare, piuttosto che governare male”, la rottura si sia verificata su un tema sociale scottante, e che qualcuno dei Verdi lo abbia accusato di cedere a posizioni populiste. Si discuteva del ricongiungimento famigliare degli immigrati siriani che hanno ottenuto asilo: è stato sospeso per due anni, sulla base di una decisione assunta dal governo di grande coalizione, fino al marzo 2018. I Verdi chiedevano che il blocco venisse rimosso alla scadenza, mentre la CSU proponeva un tetto di duecentomila unità annue ai nuovi arrivi, mediando rispetto ai Liberali che proponevano di rinviare ogni decisione alla riforma della legge sull’immigrazione.

Se il leader dell’AFD non ha voluto farsi accusare di appiattimento nei confronti della CDU-CSU, una colpevole postura che portò alla scomparsa dei liberali dal Bundestag che avevano partecipato al governo di coalizione negli anni 2009-2013, la CDU-CSU ha dimostrato di non cedere alla destra più oltranzista sul terreno dell’immigrazione.

Dopo lo stallo, la CDU-CSU sembra convinta che la paura della instabilità sarebbe una carta vincente a suo favore in una ipotetica nuova tornata elettorale. I socialdemocratici, invece, temono la prospettiva di un immediato ritorno alla grande coalizione, visto che hanno raccolto appena il 20,5% dei voti (-5,6%), conquistando solo 153 deputati (-40), e che a destra della CDU-CSU ci sono ben 174 deputati, che derivano dalla somma di quelli dell’AfD (94) e dell’FDP (80): temono di scomparire elettoralmente, tra quattro anni, dopo essersi logorati per sostenere un nuovo Cancellierato di Angela Merkel, come già successe ai liberali nel 2013. Per loro, il dilemma è mortale: o continuano a governare ancora in una grande coalizione con la CDU-CSU, rischiando di scomparire tra quattro anni; oppure rischiano di scomparire subito in una nuova campagna elettorale in cui non avrebbero voce in capitolo.

Messa così, sembrerebbe che Angela Merkel abbia ancora una volta tutti gli assi in mano.È così solo all’apparenza, se si considera vincente chi cerca di rimanere comunque al potere, dimenticando che cosa accade al contorno. È esattamente il contrario se si riflette sul fatto che la sua politica ha portato la CDU-CSU e l’SPD ai peggiori risultati della loro storia, ed alla formazione di un blocco politico di destra che arriva quasi ad un quarto dell’elettorato tedesco. Ciò su cui si deve riflettere, infatti, è lo spostamento violento a destra della Germania, con la adesione unanime al modello mercantilista che ha approfittato dell’euro per imporsi all’Europa e nel mondo, ed alla retorica che vedrebbe la ricchezza della Germania insidiata dai Paesi-cicala del Sud Europa, che debbono invece pagare loro, e fino all’ultimo, le proprie colpe.

In realtà, mai la Germania è stata più isolata, anche all’interno dell’Europa: la candidatura di Francoforte ad ospitare la sede dell’Eba, quando questa lascerà Londra, non ha superato il primo turno. Un risultato che la dice lunga sul timore diffuso tra gli altri membri della Unione rispetto alla prospettiva di rafforzare ulteriormente la presa della Germania sui sistemi bancari europei. Mai, ancora, la crescita economica della Germania è stata così squilibrata: l’attivo commerciale dell’8,1% del pil si fonda principalmente sullo squilibrio strutturale della Gran Bretagna, degli Usa e della Francia: si tratta rispettivamente, per il 2016, di 50, 49 e 35 miliardi di euro, che sommano 134 miliardi, pari al 53,8%. dei 249 miliardi di avanzo tedesco complessivo.

Se i Vincitori della guerra sono diventati i Grandi debitori, la Presidenza Trump chiede da tempo un riequilibrio e la Gran Bretagna sta abbandonando l’Unione. La Francia pensa invece a ribilanciare l’asse con Berlino con un predominio sul piano militare, facendo valere il dispositivo nucleare ed il seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, e soprattutto sul versante della politica estera, potendo giostrare liberamente in tutti gli scacchieri, dalla Russia all’Iran, dal Libano all’Arabia Saudita, fino all’Africa centrale.

La Germania si trova invece alla guida di un continente europeo ancora allo sbando, dopo dieci anni di crisi: la ripresa è sostenuta solo da un euro indebolito dalla politica monetaria della Bce, ancora eccezionalmente accomodante, mentre sono ancora insufficienti i passi avanti compiuti nella riduzione dei deficit strutturali e dei debiti pubblici e nel consolidamento del sistema bancario. La Cancelliera Merkel è stata l’artefice delle principali politiche europee: dal Fiscal Compact all’Esm; dal rifiuto di un qualsivoglia meccanismo di solidarietà per i debiti pubblici alla mancata adozione di quello pur previsto per la tutela dei depositi bancari. Ha adottato il bail-out per le banche quando doveva salvare le proprie, salvo poi sostenere la regola del bail-in quando non le serviva più, e magari serve ad affossare quelle degli altri Paesi, come l’Italia. Ha tanto sbraitato sulla politica monetaria accomodante della Bce, tacendo degli enormi vantaggi derivati sul piano commerciale per via dell’abbattimento del valore dell’euro e dei tassi di interesse negativi sul suo debito pubblico che fanno ricadere sugli investitori, prevalentemente stranieri, l’onere del rimborso. Nel 2017, l’onere per interessi sul debito pubblico in Germania è stato dell’1,25% del pil, e non dovrebbe superare l’1% nei prossimi anni, mentre l’avanzo primario dovrebbe scendere dal 2% di quest’anno all’1,75% del 2018, per arrivare all’1,25% del pil nel 2021. In Italia, al confronto, quest’anno il saldo primario è stato pari all’1,7% del pil e l’onere per interessi pari al 3,8%, in calo netto rispetto al 4,1% del 2015. Gli equilibri dei bilanci pubblici dipendono principalmente dagli oneri finanziari, non dalle tasse o dalle spese per investimenti.

Sarà un quadriennio, il prossimo, ancora più complesso e difficile di quello appena trascorso. La Bce cerca di tenere tutto insieme, in un precario equilibrio, ma nessuno sa per quanto tempo ancora lo farà. La Germania andrà ancora avanti, come se nulla fosse, pensando di continuare a mettere il cappotto a tutti: trasformando l’ESM in un Fondo monetario europeo che faccia da presidio ai conti pubblici, prevedendo la ristrutturazione parziale dei debiti prima di erogare aiuti, mettendo le manette a tutto ed a tutti.

Gli squilibri valutari e finanziari con cui la Germania si è arricchita non sono più sostenibili: Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, innanzitutto, devono riequilibrare i loro conti, non solo economici ma soprattutto politici.

Angela Merkel non tollera comprimari, e tantomeno controfigure: il governo si farà, comunque sia. Nella politica di dominio, la Germania va avanti. Da sola, contro tutti, ancora una volta.

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