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Strage in Egitto, ecco come Isis ha realizzato un potente hub nel Sinai

Venerdì un gruppo di assalto composto da una ventina di uomini armati è sceso da quattro pick-up nei pressi di una moschea sufi nel nord del Sinai e ha aperto il fuoco sui fedeli. Risultato dell’attacco: oltre duecento morti e quasi altrettanti feriti, in una delle stragi che ha mietuto più vittime in questi ultimi anni di terrore. “C’è un primo appunto tecnico da fare a proposito di quanto è successo”, spiega a Formiche.net Giuseppe DenticePh.D Student Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, e ISPI Researcher nel Programma Mediterraneo e Medio Oriente: “L’attacco è stato diretto contro i civili, un’azione di massa che si accoda sulla scia di quelle già viste in Egitto ad aprile (furono colpite due chiese cristiane il giorno della Domenica delle Palme, ndr), ma di dimensioni notevolmente superiori. La novità vera, comunque, è la modalità: si tratta di attacchi che per ferocia, dimensioni, organizzazione, ricordano direttamente quelli in Siria e Iraq”. I terroristi hanno fatto detonare ordigni all’uscita della moschea, poi hanno sparato contro chi cercava di fuggire, hanno cecchinato anche le prime ambulanze arrivate sul posto.

COSA SUCCEDE (DA ANNI) NEL SINAI

Il Sinai è un’area che da anni è oggetto di azioni terroristiche. Che cosa sta succedendo? “Già nel 2011, ma in realtà anche prima, la situazione nel Sinai era al limite della legalità perché il controllo del potere centrale era quasi inesistente. A favorire questa situazione hanno influito le Primavere arabe certamente, ma anche fenomeni laterali come criminalità, smuggling, traffico di beni e esseri umani, che sono avvenuti per lo più nella zona al confine israeliano, sul valico di Rafa che divide l’Egitto da Gaza”, risponde Dentice. “Questo contesto – aggiunge l’analista – ha favorito il passaggio in quest’area geomorfologica favorevole a chi vuole nascondersi (desertica, montagnosa, poco abitata) di criminali e soprattutto jihadisti fuggiti dalle aree centrali dell’Egitto, a cui si sono aggiunti molti palestinesi provenienti da Gaza, che insieme hanno fatto da fondamento ideologico e operativo al gruppo salafita attualmente operativo”.

L’HUB DEL CALIFFATO

Il gruppo si chiamava Ansar Beit al-Maqdis, che poi nel novembre del 2014 – dopo appena tre mesi dalla proclamazione del Califfato da Mosul – si è legato allo Stato islamico: “Una mossa spinta dalle opportunità, certamente economiche, ma anche in termini di capacità operative, e politiche, infatti grazie a questo vincolo i militanti egiziani hanno potuto trovare il trampolino per espandere le proprie azioni, arrivando fino nell’entroterra egiziano (le città, la valle del Nilo, il deserto occidentale in contatto con la Libia, che è un territorio senza regole simile al Sinai)”, aggiunge Dentice, che da mesi sta studiando il travaso, non solo ideologico ma anche materiale/operativo tra le aree centrali dell’organizzazione di Abu Bakr al Baghdadi in Siraq e la Provincia del Sinai.  “Possiamo dire che da tempo il Sinai è l’hub principale dello Stato islamico: oggi è diventato un’evidenza, ma la sua centralità è iniziata da quando il Califfato ha subito le prime sconfitte significative. Luogotenenti di Baghdadi si sono spostati verso l’Egitto: pensare che l’attuale leader della Wilayat Sainà, Abu Hajar al-Hashemi, è un ex ufficiale bahaatista iracheno”.

LA MINACCIA MAFIOSA

Dentice spiega un passaggio molto interessante che potrebbe stare anche dietro alla strage di venerdì. I baghdadisti egiziani, per creare una legame di sangue sul territorio, hanno costruito dei vincoli con le tribù beduine locali, “hanno sposato le figlie dei capi tribali” e hanno stretto un cordone difficilmente solubile con le famiglie più forti, come Sawarka, Tarabin, Masaid. Proprio i Sawarka da un po’ non stanno reggendo più il peso di questo vincolo e hanno iniziato “a parlare con il governo egiziano”: rivelano informazioni e dettagli sui movimenti dei baghdadisti nel Sinai, e questo è un elemento che indebolisce l’organizzazione. Al momento della stesura di questo pezzo non ci sono ancora rivendicazioni ufficiali sull’attacco alla moschea, ma è del tutto probabile che gli autori siano proprio i soldati del Califfato nel Sinai, e dunque è possibile, secondo l’analista, che l’azione non fosse indirizzata tanto come punizione contro i sufi – la corrente mistica islamica considerata eretica dall’Is, e dunque da sterminare –, ma possa essere stata un avvertimento di tipo mafioso al clan traditore. Qualcosa con cui i baghdadisti hanno voluto riaffermare il proprio controllo territoriale contro i collaborazionisti; non sarebbe la prima volta che lo Stato islamico segue questo genere di modalità.

I PROBLEMI DEL GOVERNO

Da qui appare evidente che dietro all’attacco di venerdì c’è anche un messaggio politico al governo: “Il presidente Adel Fattah al Sisi va dicendo da tempo che la campagna che ha lanciato per schiacciare lo Stato islamico nel Sinai sta portando frutti, però – continua Dentice – nonostante siano state impiegate le due migliori brigate dell’esercito, i risultati sono tutt’altro che buoni, e i miliziani ce lo ricordano con azioni devastanti come quella di venerdì, che sembrano dimostrare che in fin dei conti niente è cambiato dalle condizioni del 2014″. Va ricordato, dice l’analista, che questa attività militare egiziana è concordata con Israele: il Cairo infatti impiega per il contrasto dei baghdadisti nella penisola di confine anche mezzi pesanti ed elicotteri da guerre in aree da cui sarebbe inibito secondo gli accordi di Camp David, ma su cui ha ricevuto il via libera d’azione da parte di Gerusalemme. Il contatto tra egiziani e israeliani è nell’ambito di quei dialoghi discreti che lo stato ebraico mantiene da anni (e ha rafforzato ultimamente) con i paesi arabi limitrofi: c’è un interesse profondo, perché la questione del terrorismo nel Sinai è osmotica con la situazione di Gaza.

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