Pars destruens (e non è affatto un artificio retorico): negli Stati Uniti il primo anno di presidenza di Donald Trump è trascorso a smantellare, tra i rovesci vistosi al Congresso che non ha ancora abrogato l’Obamacare e i clamorosi colpi di scena sul piano internazionale, la gran parte degli assetti costruiti in decenni e soprattutto i lasciti strategici del predecessore Barack Obama. È una fase di forti turbolenze, ampiamente previste.
Un anno fa, l’8 novembre 2016, Trump conquistò la Casa Bianca: contro ogni previsione, dopo una feroce contesa elettorale che lo aveva visto contrapposto al suo stesso partito repubblicano, all’establishment, ai media mainstream.
«Make America Great Again» è stato lo slogan che gli ha consentito di ottenere il consenso della classe media e di agglutinare anche la frustrazione del ceto operaio, che ha visto sfumare il mito del sogno american, con la delocalizzazione delle fabbriche iniziata negli anni 80 verso il Messico e diventata inarrestabile nel 2000 dopo l’ingresso della Cina nel Wto. La continua contrazione del risparmio delle famiglie americane, accompagnata da un aumento vertiginoso dell’indebitamento, aveva nascosto la faglia di instabilità finanziaria che ha provocato il terremoto del 2008.
Se allora l’America profonda si scoprì improvvisamente vulnerabile, secondo Trump la strategia di Obama non aveva fatto altro che accettare il declino: da una parte c’era il ritiro militare dagli scacchieri in cui si era impegnata per decenni, dall’altra parte c’era la supina accettazione di trattati multilaterali che avrebbero danneggiato ulteriormente gli interessi americani: l’adesione al Trattato di Parigi sul clima, assai costosa per l’economia americana; l’accordo dei 4+1 con l’Iran che aveva messo in difficoltà le relazioni con Israele; la preparazione di due trattati paralleli di liberalizzazione commerciale, Tpp e Ttip, che riproponevano le pessime esperienze già fatte con l’Accordo Nafta e con l’accettazione della Cina nel Wto.
Gli squilibri commerciali e finanziari che ne sono derivati, e che hanno già portato gli Usa a essere il più grande debitore mondiale, si sarebbero ulteriormente accresciuti. Per impedire alla Cina di sopravanzare definitivamente gli Stati Uniti entro un ventennio, divenendo la prima potenza globale, non ci sarebbe più molto tempo. La proiezione all’estero di Pechino con realizzazione della nuova Via della Seta sembrava irresistibile quanto il declino di Washington.
Il primo punto di attacco nella strategia di Trump è stato ribaltare le politiche interne proponendo la riduzione delle imposte sui redditi e sulle imprese e migliorare la convenienza della produzione nazionale. L’attacco più violento era portato al più grande successo politico del suo predecessore, ossia l’Obamacare, da abrogare per via dei rilevanti oneri sul bilancio federale e dell’inusitata lievitazione dei premi assicurativi pagati dalle famiglie statunitensi. Era stato il peggio del peggio. Smantellando la riforma ci sarebbero stati risparmi fiscali di almeno 250 miliardi di dollari in un decennio che avrebbero bilanciato le minori entrate previste dalla riforma fiscale.
Abrogazione dell’Obamacare e approvazione della riforma fiscale avrebbero dovuto dunque procedere di pari passo. Qui si sono registrati i conflitti tra la presidenza Usa e la sua maggioranza: per ben due volte, prima a luglio e poi a settembre scorsi, la defezione di un manipolo di senatori repubblicani ha impedito l’abrogazione della riforma sanitaria. Il conflitto all’interno del Gop (il Grand Old Party, come viene appellato il Partito Repubblicano) si è fatto sempre più palpabile, con la resa dei conti rinviata alle elezioni di mid-term. Chi prosegue nella disruption è Stephen Bannon, il direttore di Breitbart che ha alimentato la campagna elettorale di Trump e che ha abbandonato il suo ruolo di capo della strategia alla Casa Bianca: era rimasto imbozzolato in uno sterile ruolo burocratico, mentre le polemiche divampavano. La presentazione della riforma fiscale è stata differita di mese in mese: solo il 2 novembre scorso la Commissione Way and Means della Camera dei Rappresentanti ha licenziato finalmente il testo intitolato Tax Cuts and Job Act, frutto di ampie negoziazioni. Gli equilibri contabili sono stati rinvenuti nel Budget federale per il 2018.
L’ossatura della riforma fiscale proposta da Trump è rimasta: oltre alla riduzione delle imposte sulle persone fisiche e all’innalzamento degli scaglioni, si prevede un abbattimento della tassazione sui redditi societari, che passa dal 35 al 20%, con un risparmio per le imprese stimato in 1.461 miliardi di dollari nel decennio 2018-2027. C’è poi la completa esenzione fiscale dei dividendi distribuiti a un azionista americano che derivano dagli utili prodotti all’estero: questo sgravio comporterà una riduzione del gettito fiscale di 205 miliardi di dollari nell’arco del prossimo decennio. Gli utili accumulati all’estero dal 1986 in poi, e che secondo la normativa vigente vengono tassati negli Stati Uniti soltanto una volta distribuiti, saranno soggetti a un’imposta forfettaria del 12% se detenuti in forma liquida e al 5% negli altri casi. Il maggiore introito per il Fisco americano ammonterebbe a 223 miliardi di dollari.
Trump non può fare assolutamente a meno dell’approvazione della riforma fiscale: si gioca il consenso elettorale e non solo la prospettiva della rielezione. Nel complesso la riforma fiscale determinerebbe un minor gettito di 1.500 miliardi di dollari in un decennio. È su questo profilo, sulla politica fiscale espansiva voluta da Trump, che si snodano tutte le altre questioni: dalla strategia monetaria della Federal Reserve alle prospettive dei corsi azionari di Wall Street, che sono ai massimi di sempre; dal finanziamento internazionale del nuovo deficit pubblico americano alla prospettiva dei petro-yuan con garanzia aurea che minerebbero il dollaro nel suo ruolo di principale valuta globale.
La politica monetaria del prossimo governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, dovrà guardare ben al di là del solo rapporto ottimale tra tassi di interesse e inflazione, questione che invece ha reso noto nel mondo l’economista John B. Taylor, che gli avrebbe conteso la poltrona al vertice della banca centrale americana fino all’ultimo. Si dovrà bilanciare la tendenza del dollaro a rafforzarsi sul mercato dei capitali per via del previsto aumento dei tassi di interesse, determinato dalla crescita economica sostenuta negli Usa, con l’indebolimento della divisa americana che deriverà dal maggior deficit federale indotto dalla riforma fiscale. I maggiori tassi sui titoli del Tesoro americano agevolerebbero la sottoscrizione del maggior debito.
Si aprirebbe un nuovo ciclo espansivo mondiale, generato dall’economia americana ma trainato stavolta non soltanto dalla maggiore domanda interna bensì anche dai nuovi investimenti produttivi e infrastrutturali finanziati con il risparmio fiscale. Il reshoring produttivo verso gli Stati Uniti sarà dunque il dato fondamentale rispetto al quale vanno letti molti dei fattori di instabilità che si verificano in giro per il mondo.
Sul versante del multilateralismo internazionale la presidenza Trump ha compiuto ben quattro i passi indietro: con la plateale rinuncia alla ratifica del Tpp sul Pacifico; con il conseguente abbandono delle trattative per il Ttip con l’Unione Europea; con il ritiro dal Trattato di Parigi sul clima annunciato in modo dirompente al G7 di Taormina; con il solitario ritiro dal Trattato con l’Iran, cui anzi sono state comminate nuove sanzioni per via dello sviluppo di nuovi missili.
Nel frattempo Trump ha richiesto a tutti gli alleati europei di aumentare la propria spesa per la Difesa: l’America non può continuare a fare da badante. Questo impegno, richiesto anche ai leader convenuti in Arabia Saudita per creare una sorta di Nato Araba che combatta il terrorismo islamico, si è andato a incrociare con le rinnovate tensioni in Corea del Nord. A queste sono seguite le reazioni del Giappone, che si appresta a modificare la propria Costituzione per rimuovere il limite militare alla autodifesa. A catena si sono riaccese le mai sopite preoccupazioni asiatiche nei confronti di Tokyo.
La Russia di Vladimir Putin, vedendo aprirsi un varco politico ed economico nell’Iran che verrebbe nuovamente confinato dagli Usa nel ruolo di nemico principale di Israele, ha già cercato di approfittarne. Ma rischia di compromettere le buone relazioni fin qui intrattenute con Tel Aviv durante la guerra in Siria e con l’Arabia Saudita, che da sempre è ostile all’espansionismo sciita. Anche il riavvicinamento sul versante energetico tra Russia e Arabia Saudita si complica. Niente, ancora una volta, è lineare.
La Russia inoltre rischia di rimanere isolata, chiusa a meridione dalla realizzazione della nuova Belt and Road della Seta (Obor) voluta da Pechino. L’ipotesi di realizzare un corridoio Nord-Sud, che colleghi la Russia all’India passando per l’Azerbaigian e l’Iran, andrebbe a intersecare sia la Road terrestre sia la Belt marittima, che utilizzerebbe il raddoppio del Canale di Suez per far risalire dal Mar Nero il traffico mercantile. Anche Mosca, come Pechino, esce dal guscio: ritrova ambizioni economiche, non solo geopolitiche.
Superfluo a questo punto sottolineare l’impasse politica dell’Europa intera, gravata dai postumi di dieci anni di crisi economica e dalle continue tendenze disgregatrici: dalla Brexit alla Catalogna per arrivare ai Paesi del Gruppo di Visegrad. La presidenza francese di Emmanuel Macron è ancora in mezzo al guado, l’Italia si avvicina alla tornata elettorale di fine inverno, mentre in Germania e in Austria sono venute meno le alleanze tradizionali tra i partiti di ispirazione popolare e quelli socialisti.
È stato un anno marcato da colpi di scena, veleni a ogni angolo ed episodi ancora poco chiari: dal Russiagate agli scontri contro i suprematisti bianchi fino alla sparatoria di Las Vegas con centinaia di morti. L’economia nel frattempo è andata avanti. Non sembra mai stata così in salute, soprattutto in America. Comunque sia, dovunque sia, tutti gli Stati hanno ormai come obiettivo principale quello di attirare capitali e di sviluppare le rispettive economie.
Per quanto contrastata e conflittuale, la presidenza di Trump non ha fatto mai paura ai mercati. Anzi, ogni marcia indietro è stata accolta come un passo di danza sul palcoscenico del potere globale. Ha scompigliato molto, in appena un anno. E non siamo che all’inizio.