Nel documento sulla National Security Strategy (NSS) presentato da Donald Trump lunedì appare 32 volte riportata la parola “prosperity“, prosperità: è il senso finale dell’intera strategia, la prosperità della gente americana, dietro a cui è racchiuso il messaggio a cui il presidente, che ha personalmente presentato il piano con uno speech intriso di retorica politica, ha sapientemente dato risalto mediatico. La sicurezza nazionale americana è fortemente collegata alla sicurezza economica (“La sicurezza degli Stati Uniti secondo Trump è principalmente sicurezza economica, prosperità dei cittadini americani, atteggiamento diffidente verso l’esterno, lotta ai tentativi di aggressione al patrimonio tecnologico e industriale nazionale “, scrive su queste colonne Carmine America, in un’analisi delle 68 pagine del testo).
La rivalità economica è cruciale per le dinamiche di confronto/contrasto con le “rivals power“, come Trump inquadra Russia e Cina, mettendole appena sotto il livello di minaccia con cui invece si definiscono gli “stati canaglia” di Iran e Corea del Nord e il terrorismo jihadista internazionale. L’amministrazione Trump, per esempio, sta indagando la Cina per quello che afferma essere il dumping su prodotti in alluminio, che Pechino starebbe artificialmente tenendo a basso costo sui mercati statunitensi (e ha già minacciato di fare lo stesso sulle esportazioni di acciaio): una questione di carattere economico che diventa però un confronto strategico per un presidente che vuole fare l’America di nuovo grande con il target America First.
Sempre su queste colonne, il generale italiano Vincenzo Camporini, ex Capo di stato maggiore della Difesa e ora vice presidente del think tank romano Istituto Affari Internazionali, spiega che la “preoccupazione della presidenza Usa riguarda soprattutto gli intellectual property rights. In breve, il timore è che prosegua ciò che è accaduto negli ultimi anni, e cioè il fatto che la Cina continui ad essere in grado di copiare in poco tempo gli avanzamenti tecnologici che gli occidentali hanno ottenuto in molti anni” (con una previsione che legittima le visioni di Trump: “L’Occidente può ancora sperare di avere un vantaggio solo se mantiene un delta tecnologico che fino ad ora è stato il suo vero punto forza. Se la Cina ci arriva, abbiamo un grosso problema”).
L’atteggiamento di contrasto nei riguardi della Cina, formalizzato nel documento strategico, è salito di livello durante l’amministrazione Trump. A breve Washington potrebbe per esempio alzare nuove misure per ostacolare le importazioni di pannelli fotovoltaici prodotti dalla Cina; starebbe già circolando una bozza di legge visionata in anteprima da Politico. Il prossimo mese la Casa Bianca potrebbe decidere come muoversi, e nel contrasto con la Cina potrebbe essere scelta intanto la via del fotovoltaico. L’International Trade Commission ha già concluso a settembre che l’utilizzo di prodotti a basso costo prodotti nel mercato asiatico (quasi tutti in Cina) è aspetto che crea “gravi infortuni” ai produttori americani, ma le società energetiche che lavorano nel mondo green temono che l’introduzione di misure aggressive possa far aumentare le tariffe e renderle meno convenienti. Anche questo è comunque un aspetto ripreso dalla NSS sulla visione strategica del comparto energetico.
La questione dei pannelli non è soltanto un aspetto puntuale, ma racchiude un significato politico: si tratta di una misura di guerra commerciale contro Pechino, che però contemporaneamente potrebbe aumentare i costi di costruzione degli impianti negli Stati Uniti, ma va inquadrata nel Trump-pensiero. Gli Stati Uniti, secondo Trump, potrebbero usare il “dominio strategico” derivante dalle maggiori produzioni come arma per accrescere la propria influenza globale – Trump dimentica, ovviamente, di dire che la produzione di petrolio e gas naturale negli Stati Uniti è crescita, insieme all’energia green, sotto l’amministrazione Obama. Ma, come è lo stesso Camporini a notare, nella NSS non vengono affrontate con rilevanza le questioni ambientali (che d’altronde l’amministrazione Trump ha sempre considerato argomenti secondari da minimizzare): invece nei richiami all’importanza strategica della produzione energetica si parla di maggiori concessioni per le estrazioni di carbone, petrolio e gas, (da notare che molti degli stati in cui si potrebbero aprire miniere di carbone, ad esempio, sono zeppi dei più convinti sostenitori del presidente). Sotto quest’ottica il settore fotovoltaico diventa un ottimo proxy con cui fare la guerra a Pechino: Trump non crede in quel genere di energia, dunque il contraccolpo di mercato della difesa alla produzione americana è un rischio che può essere assorbito.