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Che cosa nascondono le reazioni alla mossa di Trump su Gerusalemme

Trump, Cina, naso sanguinante, congresso

Venerdì sono diventati più accesi gli scontri tra israeliani e palestinesi che hanno seguito le dichiarazioni del 6 dicembre con cui il presidente americano Donald Trump ha espresso la volontà di trasferire l’ambasciata statunitense a Gerusalemme, scavalcando così il ruolo internazionale della città santa e dichiarandola capitale d’Israele. Alle proteste di piazza che hanno accompagnato “i tre giorni di rabbia” (così le forze politiche palestinesi hanno definito le reazioni) la polizia ha risposto sparando proiettili di gomma, e le immagini che escono dalla varie città del territorio palestinese sono quelle note degli anni delle Intifada (bilancio: circa duecento feriti, un morto). Nella serata di venerdì c’è stato anche un bombardamento aereo israeliano su una base di Hamas, mentre le sirene anti-missile sono state fatte suonare più volte in diverse città (ma non ci sono stati lanci di razzi da parte dei gruppi anti-israeliani), e le organizzazioni più radicali – come Hamas, appunto, o la Jihad Palestinese, fino allo Stato islamico – hanno invitato i propri adepti alla jihad contro gli ebrei.

LA PIAZZA…

Manifestazioni di protesta ci sono state anche in altri paesi, come Giordania, Egitto, Turchia, Tunisia e Iran, dove la popolazione locale ha piuttosto a cuore la causa palestinese, individuandola come simbolo per le sofferenze delle minoranze musulmane nel mondo. Ma queste segnano una certa discrepanza tra il realismo pragmatico con cui la vicenda viene affrontata da parte delle leadership amministrative, e ciò che sentono i cittadini. Se questi ultimi vedono la mossa di Trump come un atto di prepotenza contro i musulmani, i governi la contestualizzano in un momento in cui ci sono interessi di ordine superiore da mantenere aperti, che passano anche da Washington, Trump-o-non-Trump.

… E LA POLITICA

Nella realtà dei fatti, per altro, Trump ha dato semplicemente seguito alle direttive di una legge americana del 1995 che impone il passaggio della sede diplomatica da Tel Aviv a Gerusalemme, e che però, per prassi, viene via via prorogata (il mantenimento dello status quo è in effetti l’unica notizia che segue da anni i vari tavoli di negoziazione sul conflitto israelo-palestinese). La proroga, di sei mesi, è stata firmata per altro anche dallo stesso Trump, che proprio in occasione del nuovo rinvio (il secondo firmato da lui da quando è alla Casa Bianca) ha annunciato che però è arrivato il momento di procedere con decisione allo spostamento: lo stesso avevano più o meno detto presidenti democratici come Bill Clinton e repubblicani come George Bush prima di lui. E ancora: sebbene l’annuncio di Trump sia stato sgangherato dal punto di vista della comunicazione, nel messaggio del presidente si mantiene aperta la questione dei confini tra Israele e Palestina, aspetto sostanzioso del conflitto.

I CONTESTI GEOPOLITICI…

Occorre dunque separare le reazioni di massa più o meno veraci dai calcoli dei governi, per comprenderne contesti ed eventuali strumentalizzazioni. Per esempio, ufficialmente l’Arabia Saudita ha definito “provocatoria” la decisione del presidente americano, ma la corte di Moammed bon Salman sa che finché le reazioni di piazza saranno controllabili (e difficile che non lo siano nel regno), tutto è accettabile, con pragmatismo: Trump sta cercando (con difficoltà) di ricostruire il rapporto con gli alleati storici dell’area, e Riad è fondamentalmente interessata a piegare queste relazioni in chiave anti-Iran, vero pallino dell’attuale geopolitica saudita, e sa che in questo potrà trovare sponda sia in America, sia nella stessa Israele, che vede Teheran come nemico esistenziale alla stregua dei sauditi. Sono noti gli avvicinamenti discreti tra il regno e lo stato ebraico, che potrebbero presto avviare cooperazioni per contenere l’influenza iraniana in Medio Oriente. Lo stesso genere di avvicinamenti, ma con come scopo il contrasto al terrorismo, avviene con l’Egitto: israeliani ed egiziani collaborano da anni per mantenere la sicurezza nella zona di confine del Sinai, dove lo Stato islamico ha insediato un hotspot potentissimo. Questioni che vanno oltre alle posture di rito pro-palestinesi.

… LE STRUMENTALIZZAZIONI

E ancora, la Turchia: Ankara sta cercando di sfruttare a proprio vantaggio la situazione, rispolverando un vecchio pallino del presidente Recep Tayyp Erdogan che vorrebbe costruirsi il ruolo di guida del mondo arabo anche facendosi paladino della causa palestinese; inoltre i rapporti della Turchia con gli Stati Uniti sono attualmente piuttosto freddi, e dunque l’occasione può servire per attaccare Washington. Ma a questo attivismo superficiale, seguono contesti più profondi: turchi e israeliani hanno da diversi mesi ri-aperto i canali diplomatici interrotti anni fa, e lo hanno fatto fondamentalmente sotto egida russa, che sta cercando una stabilizzazione interessata nell’area. La Russia stessa accusa Trump per la mossa su Gerusalemme, sfruttando più che altro l’occasione per costruirsi un ruolo da interlocutore per le potenze locali, molto meno gli interessi ideologici per la popolazione palestinese.

LO SCONTRO ALL’ONU

Uno strappo c’è stato anche da parte di alcuni paesi occidentali, ed è una mossa che si inquadra in un contesto generale che può essere semplificato così: tutto quello che fa Trump, visto che lo fa Trump, assume un peso più grosso, tanto è divisivo il personaggio. Gli ambasciatori di Francia, Italia, Gran Bretagna, Svezia e Germania, alle Nazioni Unite hanno letto un comunicato congiunto in cui contestano la decisione annunciata dal presidente americano: “Non siamo d’accordo con la decisione Usa di riconoscere Gerusalemme come la capitale di Israele e di cominciare la preparazione per spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme”, perché “non è in linea con le risoluzioni del Consiglio di sicurezza e non aiuta le prospettive di pace nella regione”. Si tratta di una faccenda formalmente di rilievo, perché questo importante blocco di paesi europei ha accusato gli Stati Uniti – davanti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, riunito venerdì in sessione straordinaria – di aver violato le policy internazionali concordate. Aprendo la riunione, invece, l’ambasciatrice americana Nikki Haley, falco trumpiano, aveva accusato l’Onu di essere “ostile” nei confronti di Israele. Anche in questo caso però, sembra che più che l’interesse reale sul problema palestinese, le posizioni ricalchino interessi superiori e siano sfruttate con interesse: lo stesso Trump ha criticato e attaccato più volte le Nazioni Unite, simbolo di un globalismo che il presidente detesta.

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