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Ilva e Mittal, ecco chi soffia davvero sul fuoco

La vicenda della Ilva di Taranto è di particolare importanza per l’Italia. È certamente una questione assai complessa: per le dimensioni stesse degli impianti; per i conflitti, dolorosi, che vi sono fra le necessità della produzione e la tutela dell’ambiente e della salute; per l’ammontare degli investimenti coinvolti e per i tempi, necessariamente lunghi, che servono per scioglierne tutti i nodi. Ma proprio per questo è una vicenda esemplare. Una vera e propria cartina al tornasole delle ambizioni di governo del nostro Paese.

Governare un grande Paese avanzato non significa gestire la corrente amministrazione, partecipare a qualche discussione politica, magari lanciare qualche slogan accattivante. Ma saper affrontare e con il tempo risolvere proprio i dossier più spinosi; mettere in atto programmi ambiziosi, di lunga durata, con risultati progressivi che possono essere raggiunti; collaborare con grandi investitori stranieri senza accettare ogni loro desiderio ma anche senza alzare muri invalicabili. Non abbandonarsi allo sconforto né sognare di avere la bacchetta magica per risolvere tutto in un attimo, ma essere, allo stesso tempo, pragmatici ed ambiziosi.

Tutto questo assume ancora maggiore importanza perché il grande impianto di Taranto è nel Mezzogiorno. E il Mezzogiorno, dopo i colpi durissimi della grande crisi, ha bisogno ancor più del resto del Paese di difendere e rafforzare la sua base industriale, di mostrare con i fatti di poter essere una base produttiva competitiva, anche per attirare capitali e imprese.

Dopo un lungo periodo di incertezza, e gravi ritardi anche da parte dell’Esecutivo nazionale nel recente passato, su Taranto si sta creando un quadro con diversi elementi positivi. Definita la gara fra le cordate per l’acquisizione, e annunciati anche tempi accelerati per il pronunciamento dell’Antitrust europeo, il ministro Calenda può snocciolare con un certo orgoglio i punti fermi dell’operazione: dopo interventi per 500 milioni già realizzati, investimenti di 1,2 miliardi per il piano ambientale e di quasi 1,1 miliardi per le bonifiche, con l’inizio della copertura dei parchi minerari da gennaio e il mantenimento della produzione entro i sei milioni di tonnellate fino alla chiusura degli interventi ambientali. Un dialogo, certo non semplice, è ripartito fra la nuova proprietà e le rappresentanze sindacali (dopo un esordio assai aggressivo), con la presentazione del piano industriale, accolto con sfumature diverse ma certo non respinto in toto.

Su tutto questo si è abbattuta l’impugnativa al Tar da parte della Regione Puglia del decreto di fine settembre che creava la cornice per questi sviluppi, con la grande incertezza che essa adesso provoca su tempi e modalità, forse sulla fattibilità stessa, dell’intera operazione. La Regione Puglia è riuscita a compattare governo e sindacati su un giudizio durissimo sulla sua iniziativa. La Fiom-Cgil ha chiesto il ritiro del ricorso. Secondo il ministro Calenda, si tratta di “campagna elettorale sulla pelle dei lavoratori e dei cittadini”; secondo il segretario della Fim-Cisl Marco Bentivogli, è “grave, infantile e irresponsabile far saltare tutto per la propria visibilità politica”.

Difficile dar loro torto. Un’iniziativa, tra l’altro, che soffia sul fuoco di una città come Taranto in condizioni non solo sanitarie e ambientali, ma anche sociali e di opinione pubblica estremamente critiche; che non può più vivere con l’acciaieria così com’è, ma alla quale l’interruzione delle produzione darebbe un colpo irrimediabile e lascerebbe colossali problemi ambientali. Verso la quale vi è un assoluto dovere di fornire certezze sugli impegni e determinazione nei comportamenti.

Certamente il presidente della Regione Puglia non è nuovo ad iniziative estemporanee, che si caratterizzano più per la finalità di marcarne la personale presenza mediatica che per i loro contenuti. Ma in questo caso l’iniziativa è particolarmente grave, perché mette a rischio tutti i risultati raggiunti attraverso un processo certo non semplice. È, per dirla daccapo con Bentivogli, che centra il problema, “una manifestazione di incapacità” di istituzioni locali “in preda a un delirio di infantilismo inaccettabile”. Le autorità comunali e regionali devono avere parola nei processi che li riguardano. L’Italia non si governa per imposizioni da Roma, ma al contrario coinvolgendo le rappresentanze sociali e territoriali per arrivare a decisioni condivise. È bene che sia così, non solo per far funzionare bene i processi di partecipazione democratica, ma anche per arrivare a decisioni con maggior probabilità di durare nel tempo. Ma questo non accade se alla fine ci si riserva il diritto di far saltare il tavolo. Governare significa arrivare a decisioni e rispettarle; soprattutto avere serietà e senso di responsabilità: molto di più di quello mostrato in questa circostanza.

(articolo pubblicato sul quotidiano Il Mattino)


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