Mercoledì 6 dicembre, mentre il mondo era concentrato sull’annuncio dello spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme, l’inviato speciale di Vladimir Putin per il Medio Oriente, Mikhail Bogdanov, era a Riad. Bogdanov è uno degli analisti, strateghi, policy maker più esperti al mondo sul contesto mediorientale, e la sua presenza alla corte saudita è di per sé una notizia. Il messo di Putin, in più, ha incontrato tutte le più alte sfere del governo: il re attuale, Salman, e il re de facto, Mohammed bin Salman (MbS), oltre che il ministro degli Esteri Adel al Jubeir.
UN’AGENDA FITTISSIMA
Sul tavolo degli incontri un’agenda fittissima che va dagli accordi raggiunti durante l’ultima visita russa della corte alla cooperazione in ambito petrolifero, passando dalle mosse su scenari di crisi come la Siria, lo Yemen, la Libia e, infine, la questione palestinese. La decisione di Donald Trump di spostare il corpo diplomatico ha di fatto riacceso i riflettori su una situazione stanca e lontana dalla soluzione, e la Russia ha approfittato per far uscire uno statement velenoso dal ministero degli Esteri, che, in completo contrasto con la linea americana, dice: Mosca è profondamente preoccupata (Trump sostiene invece che la sua sia stata una mossa distensiva che aiuterà la pace), perché lo status di Gerusalemme va discusso tra israeliani e palestinesi, e la Russia continuerà a considerare la parte Est di Gerusalemme come capitale dello stato palestinese e quella Ovest di Israele (ma la scelta di Trump stralcia questo eventuale dialogo interno riconoscendo la città capitale dello stato ebraico).
IL CREDITO RUSSO: LA SIRIA
Nello stesso giorno in cui Bogdanov era a colloquio dai sauditi, il capo delle forze armate di Mosca, Valery Gerasimov, dichiarava la Siria libera dallo Stato islamico, annunciando (con numeri roboanti) che le ultime settimane di azione militare russa avevano definitivamente sconfitto i baghdadisti. La dichiarazione è zeppa di propaganda: l’IS in Siria è ormai rimasto una realtà quasi clandestina territorialmente limitatissima, è vero, ma non è grazie all’azione russa, piuttosto per merito della martellante campagna della Coalizione internazionale a guida americana. I russi di fatto si sono concentrati per almeno due anni sul difendere il regime amico, poi, una volta ottenuto quel successo, hanno deviato le forze su ciò che era rimasto del Califfato, già distrutto dagli americani.
LO SPIN DI PUTIN
Propaganda o meno, Putin – che sempre nello stesso giorno ha sciolto le inutili riserve e annunciato che si candiderà per vincere le presidenziali di marzo (governerà così per un quarto di secolo, come uno Zar) – può comunque contare su una forte presenza in Medio Oriente. La vittoria del regime in Siria è una vittoria della Russia, e nel pragmatismo delle relazioni internazionali poco importa se è stata costruita nel sangue della repressione (a quello pensa appunto la propaganda, con cui l’intervento a puntello di Damasco è stato descritto come una mera missione anti-terrorismo). Approfittando della Siria, Mosca ha costruito un’influenza di primo ordine nella regione, e s’è accreditata come interlocutore necessario per trattare gli affari mediorientali. In quest’ottica Riad ha aperto le porte della reggia al più influente consigliere di Putin quando si tratta di affari di politica estera e Medio Oriente, anche perché bin Salman sa che dialogare con la Russia significa aprire un canale con il principale (se non l’unico) alleato dell’Iran.
GLI SPAZI LASCIATI
Dal 2015, i sauditi sono artefici di una politica estera via via più aggressiva contro Teheran, che però non solo non ha portato frutti (se non destabilizzazioni), ma ha visto crescere comunque l’influenza e la forza iraniana nella regione (sempre grazie al conflitto siriano, dove gli ayatollah sono stati i primi a entrare in soccorso del regime sciita di Damasco, contro i ribelli sponsorizzati dai paesi sunniti del Golfo). Ora cercare la sponda russa significa calcare l’unica via diplomatica possibile per evitare il confronto diretto con l’Iran: a inizio ottobre era stato lo stesso Bogdanov a dichiarare, su Russia Today (dunque siamo in pieno spin politico del Cremlino) che la Russia si sarebbe offerta per limare le distanze tra Arabia Saudita e Iran. Contatti come quello tra Bogdanov e i sauditi dimostrano che fondamentalmente la Russia si sta portando avanti anche perché gli Stati Uniti hanno perso il controllo dell’iniziativa diplomatica in Medio Oriente, a cominciare dalla Siria (che segue un processo di pace alternativo da cui Washington è stato escluso). C’è una perdita di terreno inevitabilmente legata all’assenza di alti funzionari sul campo: tutto avviene infatti mentre manca ancora l’ambasciatore americano in Giordania, Turchia, Egitto, Qatar e soprattutto Arabia Saudita (dove i rapporti sono gestiti dal genero/consigliere di Trump come un affare personale); il dipartimento di Stato è in crisi per gli annunci sulla possibile sostituzione del segretario; Trump non ha nemmeno nominato un vice segretario di Stato per gli affari del Vicino Oriente, mentre il sottosegretario per gli Affari politici ha poca esperienza in Medio Oriente.