“Queste amabili rive uniscono le voci che si salutano: le parole che risuonano dalle due parti sono ripetute dagli echi che s’incontrano nel mezzo del fiume”. Questo fiume è la Mosella, cantato nel quarto secolo dal poeta Ausonio come ponte tra il mondo della classicità romana e il mondo delle nuove genti barbariche. Lambiva le sue sponde un palazzo sulla Müntzplatz di Coblenza, in cui vede la luce – il 15 maggio 1773 – Klemens von Metternich. In una magistrale biografia (Salerno, 2014), Luigi Mascilli Migliorini ne disegna un ritratto che si discosta dal cliché del “cancelliere di ferro”, come era chiamato negli anni che lo videro protagonista della storia europea.
Sono i genitori gli artefici della sua formazione giovanile. Franz-Georg, il padre, era uno stimato funzionario ministeriale. Aloisia von Kagenegg, la madre, apparteneva a una importante famiglia viennese. Da lei apprende a parlare correntemente il francese e viene introdotto nei salotti buoni della società asburgica. Vernunft und Humanität (Ragione e Umanità) sono le stelle polari della sua educazione renana. Essa viene affidata a due precettori, l’abate Bertrand e il protestante Friedrich Simon, un fervente seguace della filantropia illuminista di Jean-Jacques Rousseau. Più tardi, Metternich ricorderà che “le dottrine di questo giacobino e l’appello alle passioni popolari mi ispirarono una repulsione che l’età e l’esperienza non hanno fatto che accescere”.
Appena quindicenne, Klemens viene avviato agli studi universitari nella capitale alsaziana insieme al fratello Joseph. Nelle sue Memorie Strasburgo è descritta come una città cosmopolita, piacevole e perfino gioiosa, che però non lo distoglieva dalle lezioni di Christoph Wilhelm Koch, uno dei maestri della scuola diplomatica tedesca. È allora che Klemens comincia a interrogarsi sui dilemmi della sovranità e della sua legittimazione. Nel 1790 è a Francoforte, dove partecipa alle cerimonie dell’incoronazione imperiale di Leopoldo II: “Uno degli spettacoli più grandiosi e magnifici tra quelli a cui è possibile assistere”.
Questa affermazione preludeva a una svolta del suo pensiero. Nel luglio 1791 è a Bruxelles, dove il padre era stato trasferito come ministro plenipotenziario. È lì che il significato dell’evento rivoluzionario gli diventa chiaro. Esso era per lui così radicale e sconvolgente da richiedere non un ottuso ritorno all’Antico regime, ma un disegno politico in grado di estirparne le radici. Allievo di Nikolaus Vogt a Magonza, non ignorava l’idea di “Europäische Republik” formulata dal suo professore.
Nell’edificio istituzionale europeo immaginato da Vogt repubblica e monarchia potevano coesistere, purché si tenessero ben lontane dagli eccessi dell’anarchia e della tirannide. Garanzia di questo equilibrio era la “medietà sociale”, ossia un costruttivo compromesso tra ceto medio mercantile e nobiltà. Avvalendosi di questa elaborazione, il ventenne Klemens individua il perno della stabilità sociale nella proprietà. Condizione che certo ribadiva il ruolo preminente dell’aristocrazia, ma che non poteva più costituire – a differenza del sangue – l’imprescindibile giustificazione dei suoi privilegi, perché ormai “la proprietà è borghese”. Nel 1794 si reca in Inghilterra proprio per raccogliere informazioni più precise sulle nuove classi sociali e sulle nuove forme parlamentari create da due “rivoluzioni borghesi”.
L’anno successivo sposa Eleonora, nipote dell’illustre cancelliere di Maria Teresa Anton von Kaunitz. Scomparso l’anno precedente, era stato il demiurgo di quell’alleanza tra Francia e Austria spezzata dalla presa della Bastiglia, ma che restava il nodo cruciale della questione europea. Il suo debutto nella carriera diplomatica avviene al Congresso di Rastadt (novembre 1797-aprile 1799). Convocato per ratificare il Trattato di Campoformio (ottobre 1797), agli occhi del pur inesperto rappresentante del collegio cattolico di Vestfalia si mostra subito per quello che era: la sanzione del declino irreversibile del Sacro Romano Impero.
È in quel frangente che Metternich mette a punto la sua prima importante intuizione politica: più che dalla spregiudicatezza di Napoleone, la crisi del vecchio impero dipendeva dalla sua costituzione interna, “dalle sue avidità, dai suoi contrasti, dal suo servilismo”. Nella sua visione, cioè, il primato asburgico in un continente pacificato era inconciliabile con un’istituzione imperiale sempre più bizzarra e antiquata. La battaglia di Marengo (14 giugno 1800) confermerà questa analisi, mettendo a nudo la congenita fragilità della monarchia austriaca. Dopo la strabiliante vittoria di Bonaparte, si apriva una partita inedita: la competizione tra Vienna e Parigi per assicurarsi la funzione di cerniera dell’equilibrio europeo, che chiamava in causa anche le rispettive sfere d’influenza in Germania e in Italia. Sulla strada per Dresda, dove nel 1801 Ferdinand von Trauttmansdorff lo aveva nominato ambasciatore, si sentiva già un protagonista di quella partita.
Non peccava di presunzione. Dalla capitale della Sassonia, infatti, inizia una folgorante ascesa ai vertici dell’amministrazione imperiale: ambasciatore a Berlino (1803) e a Parigi (1806), ministro degli Affari esteri (1809), cancelliere (1821). Un ventennio speso nella ridefinizione di una balance of power, con l’Austria architrave di un’Europa non insidiata né dall’egemonismo francese né dall’espansionismo russo, né dal pangermanesimo prussiano né dalla supremazia marittima inglese.
Dopo la fallimentare campagna napoleonica di Russia, non bilanciata dai successi pagati a caro prezzo dalla Grande Armata a Lutzen e Bautzen, la puissance médiatrice di Metternich – ora insignito del titolo di principe – si rafforza. L’1 giugno 1813 è in viaggio per Gitschin, in Sassonia. Dai colloqui con lo zar Alessandro I e con il sovrano prussiano Federico Guglielmo III ottiene l’assenso a una conferenza di pace. Resta da convincere Napoleone, che gli sollecita un incontro. Il 26 giugno, nel Palazzo Marcolini di Dresda, lo attende con il suo celebre cappello sotto il braccio. Metternich gli si avvicina sentendosi “come l’uomo di Dio carico del fardello del mondo”. Il confronto è tesissimo, e durerà nove ore. “Insomma, che cosa si vuole da me? Che mi disonori?”, sbotta alla fine Napoleone. Il congedo di Metternich è gelido, e ha il tono di una sentenza inappellabile: “Voi siete perduto, Sire. Ne avevo il presentimento venendo qui; ora che me ne vado, ne ho la certezza”. Quella sentenza sarà emessa dal feldmaresciallo von Blücher e dal duca di Wellington sui campi di Waterloo, il 18 giugno 1815.
Quando il principe rientra nella capitale austriaca, viene osannato da una folla festante e salutato al teatro dell’Opera con le note del “Prometeo” di Beethoven. Omaggio tra i più solenni, tributato allo statista che aveva evitato al suo Paese di cadere nel baratro. Sebbene malvisto negli ambienti di corte, in particolare dall’imperatrice Maria Ludovica, grazie all’appoggio di Francesco I resterà a lungo il “nocchiere d’Europa”, come veniva soprannominato. Usando la carota della diplomazia e il bastone della repressione poliziesca, nel corso di tre decenni riuscirà a destreggiarsi tra le turbolente rivalità delle grandi potenze e a contenere spinte nazionalistiche, aspirazioni indipendentiste, diffusione del credo democratico.
Non poteva prevedere che il movimento insurrezionale austriaco avrebbe chiesto poco dopo la sua testa, considerando il cancelliere come il principale nemico delle riforme liberali rivendicate a gran voce. La chiederanno gli studenti – scesi in piazza a Vienna il 28 febbraio 1848 – e le Diete della Bassa Austria e dell’Ungheria, con la complicità di una corte ansiosa di liberarsi di un personaggio ormai troppo scomodo. Imperturbabile, il 13 marzo il principe si avvia verso l’Hofburg, dove viene atteso per assumere le decisioni necessarie a sedare la rivolta popolare. In realtà, tutto era stato già deciso. La folla che assediava la residenza imperiale invoca la libertà di stampa, l’elezione di un Parlamento e l’allontanamento del cancelliere. Metternich resiste, e ripete agli astanti una sua massima famosa: “Gli abusi del potere generano le rivoluzioni; le rivoluzioni sono il peggiore degli abusi. La prima frase va detta ai sovrani, la seconda ai popoli”. Ma i suoi ascoltatori – l’imperatore Ferdinando e l’arciduchessa Sofia (madre di Francesco Giuseppe) – avevano già deciso.
Costretto all’esilio, a Rotterdam si imbarca su un battello scalcinato alla volta dell’Inghilterra. Il soggiorno londinese gli lenisce l’onta delle umiliazioni subite. Se la regina Vittoria evita di riceverlo, l’aristocrazia britannica lo accoglie con cordialità. Nella casa presa in affitto nel distretto di Belgravia si vede spesso con Wellington, George Aberdden, John Lyndhurst, Benjamin Disraeli, Henry Palmerston. Sul finire dell’estate del 1848, si trasferisce a Brighton. Qui apprende che il nuovo imperatore, il diciottenne Francesco Giuseppe, il 5 marzo 1849 aveva concesso ai suoi sudditi la Costituzione. Al cancelliere Felix Schwarzenberg esterna immediatamente le sue preoccupazioni. Le rappresentanze nazionali avrebbero fatto implodere l’impero. E il riconoscimento del principio democratico avrebbe impedito la formazione di una “gentry asburgica” sulla falsariga di quella d’oltremanica, cioè di una aristocrazia che si afferma più in virtù di una legittimazione proprietaria che di un’investitura dinastica.
Ma è la piega che stava prendendo la questione tedesca ad angosciarlo maggiormente. All’inizio di gennaio, la “Quarterly Rewiew” pubblica un saggio non firmato (da Metternich) che stronca il progetto di Bund redatto da Christian Bunsen, diplomatico prussiano assistente di Bartold Niebuhr a Roma. Una Germania plurale, “divisa in una molteplicità di distretti popolati da tribù di diverse origini, differenti l’una dall’altra per le loro leggi, i loro costumi, ciascuna riconoscendo un suo proprio capo”, era quella in cui Metternich aveva sempre creduto. Era la Germania di Tacito, quella in cui era nato e in cui era stato educato. Non doveva quindi essere una Germania prussianizzata, che avrebbe escluso l’Austria e schiacciato gli Stati più piccoli.
Nel 1851 Metternich rientra in patria, e torna in possesso dell’amatissima tenuta di Johannisberg, dove gli fa visita un giovane diplomatico prussiano diretto a Francoforte, Otto von Bismarck. Qui trascorrerà i suoi ultimi anni. Più che il rimpianto del passato, lo opprimeva l’ansia del presente: l’arrogante revanscismo di Napoleone III, l’astuzia con cui il conte di Cavour si muoveva tra patriottismo risorgimentale e ambizioni sabaude, la gracilità del mondo asburgico. La guerra era vicina, e -il principe lo percepisce chiaramente- sarà l’inizio della “finis Austriae”. Muore l’11 giugno, ma sua nipote Pauline ricorda di averlo visto svenire una settimana prima, alla notizia della disfatta del feldmaresciallo Ferencz Gyulai a Magenta.