Monsignor Raspanti, nell’era della rivoluzione digitale di internet e al cospetto della globalizzazione servono ancora i corpi sociali intermedi? La crescente disintermediazione può essere considerata un segno dei tempi destinata a indebolire sempre più ruolo e legittimazione del dialogo sociale?
La risposta che danno alcuni osservatori e commentatori tende a supportare l’idea che la frenetica avanzata della digital transformation comporti anche una progressiva disintermediazione della rappresentanza e quindi una progressiva diminutio del ruolo dei corpi sociali intermedi in nome di dinamiche di partecipazione diretta, immediata e paritaria che vengono canalizzate ad esempio dai social media. Tuttavia io penso anche sulla base di una mia osservazione attenta dei social network e del loro utilizzo che questa interpretazione possa essere illusoria e fuorviante perché il “tavolo discussione” virtuale non è mai davvero rappresentativo della società e quindi della realtà. Questo per due motivi principali. In primo luogo perché “il tavolo virtuale multi partecipato” è costruito secondo regole di ingaggio pianificate da un investitore che tiene in considerazione logiche aziendali ovvero di business ed in secondo luogo è una mera illusione reputare che la partecipazione dentro quei “luoghi” sia davvero alla portata di tutti perché chi accede frequenta, partecipa e discute dentro i social è comunque una “parte” non esaustiva della realtà che ci circonda e a volte tra l’altro tende a configurarsi come una “community” autoreferente.
Questo ci deve pertanto persuadere come ancora oggi il ruolo dei corpi sociali intermedi e la loro funzione di rappresentanza sia fondamentale per le società contemporanee e per il modello della democrazia liberale e rappresentativa. Occorre allora che questi, con alcuni meccanismi adattivi nella governance e alcuni accorgimenti di regolazione ad esempio legati a buone pratiche di rinnovamento e trasparenza, siano non più screditati ma anzi rinvigoriti e rimotivati innanzitutto con un’azione di rilegittimazione da parte del livello amministrativo e politico.
Altresì neanche la globalizzazione può mettere in dubbio l’utilità dei corpi sociali intermedi perché questi anzi come “riferimento di prossimità” si pongono come garanzia di tenuta sociale per tutte quelle fragilità spiazzate e in alcuni casi spaventate e impotenti al cospetto dei grandi fenomeni globali e transnazionali che ad esempio a livello finanziario possono essere addirittura preponderanti rispetto allo Stato e al suo assetto istituzionale e normativo. Dinnanzi a queste dinamiche però senza farsi prendere dallo sconforto e dal fatalismo e quindi senza abdicare al proprio ruolo i corpi sociali intermedi devono farsi carico di rappresentare e proporre non tanto un messaggio di rivendicazione di status ma piuttosto una visione di fondo che metta al centro nuovi modelli di economia sana e sostenibile e che attraverso un’opera di sensibilizzazione verso i gruppi sociali di riferimento, che sono innanzitutto comunità di individui, orienti verso scelte consapevoli sia a livello “politico” che di “portafoglio”. Basti pensare ad esempio alla nuova consapevolezza di sostenibilità alimentare e ambientale che viene dai territori con la riscoperta di una dimensione di “prossimità” che non è solo fattore di inclusione sociale ma anche scelta di investimento in “economia buona, generativa”. Su questi aspetti la “Laudato si’“ del nostro Pontefice è illuminante.
Quanto può essere importante oggi il valore della “restituzione” di competenze professionali al servizio della società e del tessuto civile per sostenere lo sviluppo e rigenerare una consapevolezza civica nel Paese? Come si compie la “missione” di un’Italia migliore e che ruolo per i manager?
Io penso che innanzitutto occorre lasciarsi alle spalle la retorica del “business as usual” e questo vale sia per le aziende che per i manager. La ricerca estenuante di massimizzazione dei profitti raramente incontra la logica della “restituzione”. Dal mio punto di vista l’economia sociale di mercato può essere invece un modello da prendere a paradigma in quanto come più volte sottolineato dal Pontefice tale modello integra le virtù del mercato quale efficiente vettore di allocazione di beni e risorse con la considerazione di principi di responsabilità sociale e civile. Dirigenti e manager sono pertanto i principali garanti dell’adozione di questo modello perché è attraverso la loro consapevolezza che la responsabilità dell’utile economico può tradursi in responsabilità sociale. Nell’azione di responsabilità sociale vanno considerati l’attenzione al capitale umano, la prosperità delle comunità territoriali su cui ricade l’attività d’impresa, la sostenibilità ambientale e quindi il benessere delle generazioni future. Penso che questo tipo di consapevolezza e attenzione restituisca valore aggiunto all’impresa perché rende la sua attività più affidabile, più radicata e dunque duratura nel tempo. I manager che con professionalità, passione e competenza si adoperano dentro l’impresa per sviluppare questo tipo di investimento “generativo” per il territorio arrecano grande beneficio nel bilancio aziendale così come nel “bilancio sociale” del Paese. E se lo fanno costruiscono sicuramente un pezzetto di “Italia migliore”.
Che rapporto bisogna coltivare tra competenze senior e giovani generazioni per orientare all’ottimismo, alla consapevolezza di sé e al saper fare? Cosa possono fare i manager per supportare i millennials?
Oggi i giovani sono forse la generazione più disorientata e questo innanzitutto per una evidente mancanza di fiducia. La sfiducia intergenerazionale è forte, così come lo è da parte loro nei confronti delle classi dirigenti e della politica, basti pensare ai bassissimi tassi di partecipazione al voto dei millennials nelle ultime tornate elettorali e nel referendum di un anno fa. Io penso tuttavia che la non partecipazione non è mancanza di interesse, di vivacità ma “distanza”, “scollamento”, “disillusione”. Il tema è quindi la riconquista della fiducia e la fiducia si riconquista solamente aumentando la credibilità ovvero accorciando la distanza tra il dire e il fare, tra parola e azione. In Italia il gap tra promozione e realizzazione è davvero troppo ampio a volte addirittura prima si promuove e molto tempo dopo, se non “mai”, si realizza. Per ricostruire la fiducia è necessario pertanto iniziare a invertire questo rapporto tra promozione e realizzazione. Ecco il manager penso che debba assolvere con orgoglio e passione questa missione. Potremmo definirla la “vocazione” dell’esecuzione.
Un altro aspetto dirimente per guardare al futuro dei nostri giovani con ottimismo, e lo dico da uomo del Sud dove si vive esageratamente di più questa sofferenza, che compete a classe dirigente e manager è la “cultura della restituzione”. Le generazioni adulte si devono “donare” ai giovani nella logica del mentore, del maestro di “sapere” che trasferisce competenze “gratuitamente” senza troppo curarsi dell’inquadramento normativo, aziendale, di tale opportunità. Con giovani occorre uscire dalla trappola di programmi rigidi calati dall’alto ed entrare nella logica della disponibilità e della gratuità. Riconosco che questo approccio può comportare dei “costi” vivi ma ad oggi penso sia l’unico in grado di sanare il crescente distacco intergenerazionale.
Come definirebbe sulla base delle precedenti considerazioni il concetto di “leadership civiche”?
Leadership civica è senza dubbio la considerazione consapevole, e soprattutto la ricezione e messa in pratica, di molti dei messaggi emersi in questa conversazione. Sono sicuro cioè che la leadership civica è quella che si aziona coinvolgendo persone che riconoscono e operano con passione il principio di responsabilità sociale e civile, scegliendo consapevolmente di perseguire il bene comune. Gli interpreti della leadership civica sono quelle persone in grado di catalizzare intorno a sé un’aurea di fiducia stimolando negli altri azioni positive per il compimento di un interesse comune. Nella mia esperienza ho visto leader (sia a livello d’impresa che istituzionale) andare avanti da soli nell’auspicio di essere seguiti per riconoscimento di ruolo e di status. Ma è un orizzonte corto destinato, specialmente al tempo di oggi, a non costruire benefici duraturi. Nelle società complesse un leader è tale solo se in grado di far sedere “allo stesso tavolo” persone con ruoli, responsabilità e campi d’azione diversi, mettendo al centro l’esigenza di costruire soluzioni condivise e sostenibili partendo da punti di vista diversi. La leadership civica insomma è quella che riesce a catalizzare persone in grado di costruire “insieme” e responsabilmente azioni positive a beneficio delle nostre comunità sociali e civili.
Filippo Salone, coordinatore nazionale PRIORITALIA, la Fondazione costituita da Manageritalia e CIDA, due delle principali organizzazioni di rappresentanza della dirigenza italiana.