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Le mani della Cina su Saudi Aramco preoccupano Usa e Giappone

Washington e Tokyo stanno lavorando a stretto contatto con la corte saudita per veicolare, per quanto possibile, la privatizzazione di una fetta pari al 5 per cento del gigante petrolifero di Riad, la Saudi Aramco. Il timore americano e giapponese è che Pechino possa acquisire quote rilevanti e con quelle far giocare un peso politico e geopolitico finora latente in Medio Oriente. Questo movimento è legato al fatto che sulla società statale saudita, prima destinata a diventare l’offerta pubblica più grande al mondo, con una quotazione nazionale e internazionale prevista per il prossimo anno, Riad ha recentemente preso in considerazione la possibilità di cedere un collocamento privato a un consorzio cinese di entità statali, almeno secondo quanto riportato dal Wall Street Journal.

GLI INTERESSI CINESI

La Cina è il più grande importatore di petrolio al mondo, e ha necessità della materia prima energetica perché la sua economia continua a correre, in perenne contrasto con l’economia americana. Se Pechino dovesse entrare con forza in Aramco, il link che si creerebbe non però sarebbe solo tra fornitore/produttore, ma si porterebbe dietro un enorme peso politico, dato che Riad è uno storico alleato strategico americano, e la Cina è il principale concorrente globale di Washington. Tokyo, inoltre, vede la possibilità come una minaccia, perché è dipendente dal petrolio saudita e in concorrenza sulle questioni regionali asiatiche con i cinesi.

LO SCENARIO REGIONALE

La questione si inquadra all’interno delle dinamiche controverse che stanno caratterizzando il Golfo, e in particolare l’Arabia Saudita. La privatizzazione di Armaco è uno dei grandi argomenti dietro all’ascesa al potere, e conseguente consolidamento, del principe ereditario Mohammed bin Salman: la petrolifera, che detiene il controllo di circa il 16 per cento delle risorse dell’interno pianeta, è da sempre un affare del trono, e mentre bin Salman spinge la vendita di una parte per portare il regno verso una differenziazione economia, c’è un’opposizione reazionaria che prova a rallentare il processo, colpita però dalle epurazione del futuro sovrano. Il tutto avviene in un contesto delicato, con Riad che, anche per via delle visioni di bin Salman e il suo feeling con i falchi di Abi Dhabi, ha alzato il livello del confronto con l’Iran – un altro paese che, dopo il sollevamento delle sanzioni post Nuke Deal, è tornato a dire la sua nel mondo del commercio del petrolio ed è inoltre un fornitore strategico cinese (Pechino si ha iniziato a rivolgersi anche a Riad proprio per differenziare gli approvvigionamenti).

DIETRO ALLA QUESTIONE

La notizia dello shift cinese di Riad è uscita inizialmente a ottobre, e da quel momento gli incontri tra funzionari giapponesi e sauditi sono diventati più intensi, racconta il WSJ, mentre Washington ha spesso assecondato la linea saudita sulle controversie regionali – per esempio, quando Riad spinse alle dimissioni del premier libanese, gli americani furono i primi, se non gli unici, a seguire le posizioni saudite senza criticarne l’interferenza. (Questo rinnovato feeling con i sauditi potrebbe anche servire a non far spostare il regno troppo ad oriente). Secondo le fonti del giornale economico americano, quando il 4 novembre il presidente Donald Trump espresse apertamente, via Twitter, l’auspicio che Riad scegliesse la borsa statunitense per piazzare la quotazione di Aramco, si trattò di un tentativo piuttosto diretto di far pressione sui sauditi e intralciare le discussioni intavolate con la Cina (da notare che c’è anche la possibilità che il fondo sovrano cinese possa comprare direttamente una quota di partecipazione come cornerstone investors).

LA CINA IN MEDIO ORIENTE

Washington vive con ansia la proattività cinese in Medio Oriente. Per esempio, è in discussione la revisione delle norme rigide che mettono paletti stretti per la vendita di velivoli-senza-piloti armati: l’amministrazione e il Congresso stanno pensando di allentare un po’ il regime legislativo esistente, per allargare il potere di acquisto degli alleati dell’area MENA (Middle East and North Africa) dopo che  l’Iraq, l’Egitto e la stessa Arabia Saudita, hanno chiuso accordi commerciali-militari con la Cina che comprendo anche l’acquisto di droni armati. La Cina sta sommessamente entrando nello scenario mediorientale: ha passato aiuti economici allo Yemen in crisi umanitaria dopo la rivolta Houthi e l’intervento di risposta guidato dai sauditi; è diventata un attore di primo piano nella ricostruzione post-guerra in Siria; produce e vende armi di buona tecnologia; e può vantare collegamenti con l’Iran da mettere sul piatto come contropartita pragmatica (un po’ come dire a Riad, se entro in Armaco taglio con Teheran). (Provocazione: se i soldi per Neom, la grande aerea commerciale/industriale tra Egitto e Giordania pianificata dall’Arabia Saudita, arrivassero dalla Cina come pista laterale al progetto geostrategico OBOR?).

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