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Tutte le tensioni fra Tillerson e Trump (che vuole Pompeo come segretario di Stato)

Trump, Cina, naso sanguinante, congresso

Secondo fonti interne alla Casa Bianca sentite dal New York Times, è già operativo un piano per sostituire il segretario di Stato Rex Tillerson con l’attuale direttore della Cia Mike Pompeo. Sarebbe un grosso scossone per l’amministrazione Trump, sebbene sia noto da mesi che il rapporto tra il presidente e il suo capo della diplomazia è arrivato ormai ai minimi termini. Si ricorderà che Tillerson definì Donald Trump un moron, idiota o imbecille, a margine di una riunione serrata e davanti a diversi collaboratori che non aspettarono molto per spifferare la sfuriata alla stampa: Trump, che normalmente è uno che le cose le prende piuttosto sul personale, andò davanti ai giornalisti a dire che avrebbe tranquillamente sfidato il segretario in un test sul QI, e sapeva bene che alla fine avrebbe vinto.

LE DISTANZE

Dietro agli aspetti più naif della relazioni, ci sono distanze tra Trump e Tillerson. Per esempio, mentre Trump ruggiva contro la Corea del Nord, il dipartimento manteneva una linea molto più tranquilla, sostenendo che la linea negoziale era sempre aperta, opzione ribadita anche a poche ore dall’ultimo test avvenuto questa settimana. D’altra parte Pompeo invece è uno dei falchi trumpiani: contrariamente a Tillerson il direttore s’è fatto sponda delle posizioni della Casa Bianca, per esempio sul contrasto a tutto campo all’Iran.

LA SPONDA DI POMPEO

La Cia questo mese ha declassificato – su forte spinta di Pompeo – alcuni documenti che rivelano come Teheran abbia dato ospitalità a uomini di al Qaeda in passato: un proxy da usare per la retorica presidenziale che inquadra gli ayatollah come guide di uno stato canaglia che finanzia il terrorismo per perpetrare i propri interessi politici. È una retorica che cerca e trova sponde in Medio Oriente, tra sauditi, israeliani e annessi: per esempio, l’ambasciatore emiratino a Washington Yousef Al Otaiba (uno che da tempo frequenta gli uffici che contano dell’amministrazione americana), dice da diverse settimane che la testa di Tillerson cadrà entro fine anno; ed è questa la tempistica presunta, anche se la Casa Bianca smentisce categoricamente tramite la portavoce e Trump ha replicato al volo qualcosa come “è ancora lì” (Tillerson).

TILLERSON LASCIA IN UN MOMENTO DELICATO

Del rimpasto potrebbero essere effettivamente contenti gli storici alleati americani mediorientali, a cui Trump sta dando rinnovato credito anche per sottolineare la differenza delle sue politiche da quelle del suo predecessore (che invece a Riad e Gerusalemme non era più così ben accolto dopo l’accordo sul nucleare iraniano e altri passaggi di politica regionale che non erano piaciuti al regno e allo stato ebraico, diventanti sotto Trump apertamente in partnership). Tillerson (ex Ceo di Exxon Mobil, competitor energetico di primo livello), ha sostenuto timidamente le politiche aggressive uscite in questi mesi dal regno (mentre Pompeo, che ha visioni anti-iraniane, potrebbe accodarsi di più alla linea). Ancora un esempio, restando sulle questioni mediorientali. Quando Riad decise di isolare il Qatar per i link con l’Iran, formalmente accusando Doha di finanziarie gruppi terroristici, Trump seguì la scelta saudita, ma nel frattempo a Foggy Bottom si alzava il piede dall’acceleratore per cercare soluzioni a un pasticcio che coinvolgeva interessi strategici americani. L’esclusione di Tilerson si inquadra anche in questo delicato momento in Medio Oriente.

TRUMP VUOLE INTORNO UOMINI FEDELI

Pompeo è un fidato uomo del presidente: una delle critiche che viene alzata contro di lui è di presenziare più spesso a Washington, compreso alla Casa Bianca per incontri politici, che a Langley, dove si trova la storica sede della Cia in Virginia. Tillerson, invece, è stato molto spesso associato al gruppo di salvatori della patria che ha cercato – e cerca? – di normalizzare la presidenza Trump. Però magari il segretario è stato più un cane sciolto: si pensi che le fonti del Nyt dicono che il piano per sostituirlo è stato pensato dal Capo dello staff John Kelly, il generale che è uno dei simboli di quel gruppo di normalizzatori, che probabilmente ha scelto di far saltare la testa di Tillerson per evitare che vada ancora in scena sui teatri internazionali lo spettacolo pietoso del presidente che smentisce il suo segretario e poi cerca di pasticciare qualche “sono stato frainteso” rabberciato. Questo piano prevede di incastrare un altro pezzo del puzzle: mettere alla Cia Tom Cotton, falco neocon diventato per pragmatismo molto vicino a Trump. Cotton è un fidato à la Pompeo: quando il presidente si era trovato a scegliere il nome per guidare il dipartimento di Stato, quello di Cotton è stato per settimane in testa ai papabili. Ormai è noto: Trump vuole intorno a sé uomini fedeli, è anche una questione di empatia personale; in una delle occasioni in cui incontrò l’ex capo dell’Fbi, anche lui licenziato dal presidente, gli chiese proprio questo, “fedeltà”.


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