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Trump e la sicurezza nazionale. La versione del generale McMaster

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Il recente rilascio della National Security Strategy da parte dell’amministrazione americana ha sancito un primo fondamentale passo per la razionalizzazione e la formalizzazione del trumpismo in politica estera e nei rapporti con la comunità internazionale.

In buona parte, i meriti per il lavoro svolto vanno assegnati al gen. H.R. McMaster, National Security Advisor di Donald Trump, che sarebbe riuscito nell’impegnativo esercizio di mediare tra le disposizioni del presidente e i punti di vista dell’ampia comunità di funzionari, professionisti ed esperti che a vario titolo si occupano di sicurezza nelle istituzioni americane.

A McMaster va anche riconosciuto il merito di aver bilanciato la dottrina dell’America First con l’impegno e la leadership degli Stati Uniti nel mondo. Mediare tra la fortissima spinta nazionalista e la storica proiezione internazionale che da decenni caratterizza la politica estera statunitense non è stato facile.

Sebbene il risultato di tale lavoro sia stato più che apprezzato anche dalla comunità di esperti che si occupano di sicurezza nazionale nei think tank di Washington, non si è del tutto sopita quella sensazione di incomprensione che ancora oggi persiste nei rapporti tra Donald Trump e lo staff della Casa Bianca impegnato a implementare le disposizioni del presidente in atti e provvedimenti che andranno ad incidere sui rapporti tra gli Stati Uniti e il resto del mondo.

Per comprendere le ragioni di tale clima è assai utile richiamare una recente dichiarazione rilasciata ai media dallo stesso McMaster, il quale ha affermato senza mezzi termini che l’approccio del presidente ai temi di politica estera lo pone fuori dalla sua “comfort zone”, manifestando un certo distacco dal modo in cui Trump si muove sulla scena internazionale.

McMaster ha anche utilizzato l’espressione “pragmatic realism” (realismo pragmatico) per definire l’approccio del presidente alla complessità internazionale. Le opinioni pubblicamente espresse dal National Security Advisor nei confronti di Donald Trump hanno un peso enorme e servono ad avere una costante misura del livello di tensione nei rapporti all’interno della Casa Bianca. Una tensione da interpretare non necessariamente in chiave negativa.

Da quando, infatti, il generale ha sostituito Michael Flynn come consigliere per la sicurezza nazionale, è stata inaugurata una nuova stagione contraddistinta dalla “istituzionalizzazione” di Trump, che si è mostrato gradualmente più aperto e allineato alle istanze della nutrita comunità che a Washington si occupa di sicurezza nazionale e politica estera. McMaster è riuscito nell’intento di portare il presidente su posizioni più equilibrate, pur senza mai snaturare la sua verve polemica nei confronti di quanti nelle precedenti amministrazioni abbiano tralasciato gli interessi americani. E’ anche merito di H.R. McMaster se America First non sia stato tradotto in America Alone, come molti temevano prima dell’ingresso allo Studio Ovale del generale che ha servito in Afghanistan ed Iraq, conquistandosi la fiducia e il rispetto di Trump.

Una fiducia che ha causato non pochi malumori da parte dei puristi del “Make America Great Again”, a partire da Steve Bannon, l’ex stratega della Casa Bianca. Formiche.net ha raccontato in dettaglio le contrapposizioni e la tensione che ancora si respira ai vertici dell’amministrazione Usa.

Nonostante ciò, l’opinione che lo stesso McMaster ha del lavoro al fianco di Trump continua ad essere in linea con il realismo pragmatico del presidente. Questo dato emerge chiaramente da una ulteriore dichiarazione pubblica del National Security Advisor: “C’è chi ha descritto il presidente come dirompente. Chi usa questi termini ha ragione. Si tratta di una caratteristica che reputo positiva, perché non possiamo più permetterci di investire in politiche che non promuovano gli interessi e i valori degli Stati Uniti e dei nostri alleati”.

Dal pensiero di McMaster traspare, dunque, un concetto che ben argomenta il suo sentirsi fuori dalla “comfort zone” nel lavorare con Trump: il confronto con posizioni apparentemente incompatibili può rivelarsi più che utile per sviluppare ed implementare una nuova e differente visione del mondo.



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