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Vantaggi e prospettive della riforma fiscale firmata da Donald Trump

Di Giacomo Lev Mannheimer
Trump

Dopo tante ipotesi e promesse, ci siamo. Il Congresso degli Stati Uniti, con il sostegno quasi unanime del Partito Repubblicano, ha approvato la riforma fiscale che era stata al centro della campagna elettorale di Donald Trump. Il quale l’ha descritta, raggiante, come “la più imponente revisione del fisco americano negli ultimi trent’anni”, e al netto della valutazione di merito non si può dire che non abbia ragione.

Il piatto forte riguarda l’aliquota sul reddito delle società, che passa dal 35 al 21%. Durante la campagna elettorale Trump sottolineò spesso come un’aliquota così alta rendesse poco competitive le imprese americane, se confrontate con i suoi principali competitors (Cina e India, ma anche tutti i paesi europei hanno aliquote più basse). Con questa sforbiciata, gli States scalano la classifica e vengono preceduti solo da paesi come Irlanda, Polonia o Singapore.

I vantaggi fiscali, per le imprese, non finiscono qui. La riforma prevede una deduzione del 20% sui primi 315.000 dollari del reddito di imprese individuali e società di persone, con tetti progressivi all’aliquota marginale effettiva che la mantengano in ogni caso al di sotto del 30%. Inoltre, viene abrogata la cosiddetta alternative minimum tax, cioè il minimo di tasse che le imprese devono pagare a prescindere dall’applicazione di crediti d’imposta, deduzioni e detrazioni sui propri redditi.

Altro snodo fondamentale è il passaggio a un sistema territoriale per le multinazionali, per cui le imposte pagate fuori dagli Stati Uniti saranno escluse da quanto dovuto in patria. Un modo per avvicinare l’America ai sistemi fiscali di tutto il mondo industrializzato, incoraggiando le big companies americane a rimpatriare vasti patrimoni detenuti all’estero e che, fino ad oggi, avrebbero di fatto rischiato di essere tassati due volte. I patrimoni rimpatriati saranno tassati una tantum con un’aliquota dell’8%. Infine, la riforma scoraggia le imprese dalla tentazione di trasferire redditi, proprietà intellettuale e brevetti all’estero, prevedendo limiti e vincoli di vario genere.

Non mancano le novità anche per le persone fisiche. Oltre a riformare gli scaglioni delle aliquote, riducendole leggermente, la riforma raddoppia le deduzioni standard – sia per gli individui singoli che per le famiglie -, il credito fiscale per i figli, e l’esenzione sull’imposta di successione. Viene aumentata la deducibilità delle spese mediche out-of-pocket, viene eliminata l’esenzione fissa sui redditi personali, e soprattutto vengono eliminate le sanzioni, previste dall’Obamacare, per chi non contrae un’assicurazione medica.

Come giudicare la riforma? Nel breve termine, con ogni probabilità, l’economia americana beneficerà davvero della sforbiciata alle tasse, e in modo consistente. Un recentissimo studio del Tax Policy Center ha calcolato gli effetti della riforma sulle diverse classi di reddito statunitensi, rilevando come nella fascia più bassa solo l’1% pagherà più tasse, mentre il 54% ne pagherà meno. E questa percentuale aumenta fino a quasi raddoppiare per le fasce di redditi media e alta, in cui pagheranno meno tasse rispettivamente l’86 e il 91%. A pagare di più saranno l’1% dei redditi più bassi, il 7% dei redditi medi e il 9% dei redditi più alti.

La sensazione, però, è che la riforma di Trump sia il classico caso di uovo oggi preferito alla gallina domani. Ugo La Malfa, esponente di spicco del Partito Repubblicano, era solito intervenire di fronte a qualunque proposta di legge o di intervento economico dello Stato, chiedendo sempre la stessa cosa: “Chi paga?”. Di fatto, per abbassare le tasse uno Stato ha solo due modi: ridurre le spese che quelle tasse sostengono, o indebitarsi. Purtroppo, Trump ha scelto quest’ultima via – come del resto tendono a fare i governi di tutto il mondo. Le principali stime del costo della riforma ipotizzano un indebitamento compreso tra 1.500 e 1.800 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni.

I sostenitori della riforma assicurano che lo stimolo all’economia generato dalla riduzione fiscale sarà tale da garantire un aumento di gettito sufficiente a coprire il debito, ma l’esperienza suggerisce che ciò accade molto raramente. È sicuramente affascinante tornare a sentire a parlare della curva di Laffer, che quarant’anni fa convinse Ronald Reagan ad abbassare con decisione le imposte dirette. Il problema, però, è che la curva di Laffer funziona, a detta del suo stesso ideatore, laddove esista un prelievo fiscale oltre il quale l’attività economica non è più conveniente. Non sembra essere questo il caso: ben più probabile è che ad aumentare, nei prossimi anni, sia soltanto la curva del debito pubblico.

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