Lo slogan del Maggio francese recitava “è solo l’inizio”, esso indicava un nucleo di speranze non riducibili all’ambito scolastico e universitario, ma che coinvolgevano i diritti civili, il femminismo e la libertà in ogni campo. L’arte, al contrario della politica, che è chiamata a fornire risposte ai nostri problemi, si propone sempre come domanda sul mondo, mai come una risposta. Essa problematizza la nostra esistenza, arricchendola di nuovi spunti e di sorprese. “È solo l’inizio” potrebbe essere uno slogan appropriato anche in campo artistico, perché ogni qualvolta gli artisti sfogano il proprio furore creativo e realizzano una nuova forma, generano dei risultati che sono a priori sconosciuti.
L’opera, una volta creata, intercetta l’immaginario collettivo, buca la solitudine contemplativa dello spettatore e produce riflessione, ribellione, piacere e rivolta. Il ‘68 nasce nel mondo delle scuole e delle università. Prima di raggiungere la sua massima espressione, nell’Europa occidentale, il movimento muove i primi passi nel mondo universitario statunitense, a Berkeley, dove contesta l’imperialismo americano che in quegli anni trovava la sua massima espressione nella disastrosa campagna del Vietnam.
Tuttavia, i risultati migliori e più persistenti della contestazione sessantottina avvengono in campo artistico. Il ‘68 ha infatti inaugurato la stagione dell’arte contemporanea, un’arte sperimentale legata alla satira delle avanguardie, ha accelerato la sperimentazione di nuovi materiali e forme nuove di linguaggio. Esso ha soprattutto richiamato lo spettatore a una partecipazione attiva di fronte all’opera, trasformando in modo inedito il rapporto tra pubblico e arte contemporanea.
Fino al ‘68, l’arte produceva una meraviglia che quasi generava una paralisi estetica/estatica dello spettatore. Il ‘68 coincide con la nascita di un’arte di partecipazione e di interazione. A ciò hanno contribuito l’utilizzo del proprio corpo da parte degli artisti, concretizzatosi nella body art, l’introduzione dell’effimero e di quei linguaggi dove il momento della fruizione dell’opera combacia con quella della produzione del prodotto artistico, dando vita a una vera e propria comunità estetica tra artista e spettatore.
Il ‘68 non ha però creato l’arte contemporanea, ma le ha offerto terreno fertile, agendo come catalizzatore e acceleratore di certe tendenze artistiche i cui prodromi venivano da lontano. Non a caso, nel ‘68 trovano esaltazione dei movimenti che già erano nati agli inizi degli anni Sessanta. Si pensi al gruppo Fluxus, molto prima a John Cage, a Machunas, a Vostell, a Giuseppe Chiari in Italia, per arrivare a Yoko Ono, che sancisce l’unione tra oriente e occidente.
Durante il ‘68, una certa idea di arte che non ha mai cessato di sperimentare nuove forme di socializzazione e di libertà espressiva si è finalmente imbattuta in una politica rinnovata, in un atteggiamento improvvisamente liberatorio e intriso di fantasia e speranza. Anche l’arte ha vissuto la sua stagione di proteste durante il ‘68, spesso in sintonia con il movimento studentesco.
Celebre è l’episodio avvenuto nel ‘68 alla Biennale di Venezia, forse la più prestigiosa rassegna internazionale d’arte contemporanea, dove un gruppo di artisti voltò le proprie opere faccia al muro. Era un modo di partecipare alla protesta politica e opporsi alla mercificazione dell’opera d’arte, un tentativo estremo di restituire l’arte alla collettività cercando di stigmatizzare la tesaurizzazione dell’arte propria del collezionismo e di restituire all’opera una possibilità d’accesso collettivo e universale.
Sarebbe tuttavia un errore attribuire all’arte un determinato colore politico. Sebbene influenzata dal clima politico circostante, l’arte non è mai né di destra né di sinistra; l’arte è di centro, non la si può in nessun modo accusare di collaborazionismo o di avventurismo. Mi piace piuttosto pensare che l’arte, soprattutto quella contemporanea, sia un massaggio del muscolo atrofizzato della sensibilità collettiva.
L’arte ha quindi una funzione movimentista, sviluppa dinamismo sociale ed è in questo senso un eterno movimento della fantasia che non poggia su una o più collocazioni politiche, ma le attraversa. È certamente possibile che l’artista voglia veicolare un messaggio politico attraverso l’opera. L’arte, tuttavia, quasi sempre sopravvive al suo creatore e presto o tardi trascende la politica ed eclissa l’intenzione stessa dell’artista, dotandosi di un messaggio del tutto autonomo.
Sebbene il pathos generato dal ‘68 abbia coinvolto anche l’arte, quest’ultima non ha retto l’urto della società postmoderna, privata del senso della collettività e regno dell’individualismo. Gli artisti non procedono più in gruppo, ma in fila indiana, singolarmente. Dopo il minimalismo a livello internazionale, l’arte povera e la transavanguardia in Italia, non c’è traccia di un senso collettivo di partecipazione che è stato forma e sostanza del ‘68.