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La guerra in Afghanistan e la sicurezza internazionale. Il punto di Stefano Vespa

C’è una guerra lontana i cui echi continuano a trovare poco spazio sulla stampa italiana, anche se ci riguarda. È la guerra in Afghanistan dove l’Isis sembra prendere sempre più piede stando almeno agli attentati che si ripetono frequentemente. La Nato è in Afghanistan da 16 anni, all’indomani dell’11 settembre, e lo stato dell’arte della missione “Resolute support” sarà uno dei temi al centro della riunione del Comitato militare dell’Alleanza, stavolta al livello dei capi di Stato maggiore della Difesa che si ritroveranno a Bruxelles il 16 e 17 gennaio, quando si parlerà anche del fianco Sud (Africa e Libia) che ci interessa ancora di più.

LA MISSIONE “RESOLUTE SUPPORT” E L’ITALIA

Esattamente tre anni fa “Resolute support” prese il posto della missione Isaf concentrando l’attività sull’addestramento degli afghani anziché sul modello “combat”. Tutti sanno che di “combat” ce n’è ancora, con operazioni mirate delle forze speciali di varie nazioni, ma il punto su cui si discute ormai da qualche anno è come uscire dallo stallo che caratterizza i rapporti di forza in quell’area: non si riesce a vincere una guerra in un Paese dove britannici prima e sovietici dopo ci rimisero le penne, non è possibile abbandonarla a se stessa perché diventerebbe in un baleno un’enorme base terroristica.

L’Italia ha da sempre la responsabilità dell’area occidentale, con il comando a Herat. I circa 900 uomini (oggi su base della Brigata Sassari) saranno ridotti forse di 200 o 300 unità che, insieme con altri da recuperare alla diga di Mosul in Iraq, consentiranno di allestire l’annunciata missione in Niger di cui ancora non si conoscono le regole d’ingaggio. Tre anni fa la missione era di 500 uomini, ma fu il governo di Matteo Renzi a decidere nel 2015 di aumentare il contingente su richiesta del presidente statunitense Barack Obama. Ridurlo, dunque, significherà tornare a una situazione già vissuta.

LE STRAGI DELL’ISIS E I FOREIGN FIGHTER IN FUGA

Se Herat è una zona abbastanza tranquilla, lo stesso non può dirsi del resto dell’Afghanistan dove le preoccupazioni aumentano. L’ultima strage messa a segno dall’Isis è avvenuta il 4 gennaio a Kabul, con oltre 20 morti e almeno 30 feriti. L’agenzia del Califfato, Amaq, aveva parlato di 80 tra morti e feriti: un kamikaze si è fatto esplodere nei pressi di un check-point della polizia a presidio di una manifestazione di commercianti. Le vittime sono dunque soprattutto civili. Da mesi a Kabul, che dovrebbe essere la città più blindata, si ripetono attentati sanguinosi tanto che la Gran Bretagna vuole spostare la propria ambasciata dai margini della zona di sicurezza della capitale a un’area più protetta.

In alcuni raid aerei delle forze armate afghane all’inizio dell’anno nel Nord sono stati uccisi 26 militanti dell’Isis, tra cui quattro francesi e tre uzbeki che avrebbero avuto l’incarico di addestrare altri affiliati al combattimento. Sempre con attacchi aerei, cinque militanti dell’Isis sono stati uccisi da afghani e truppe Nato nella provincia di Nangarhar, nell’Est del Paese, la stessa area dove il 1° gennaio è morto il primo soldato americano del 2018, un sergente dei Berretti verdi, proprio combattendo contro elementi dell’Isis. Altri quattro americani sono rimasti feriti.

Dopo la sconfitta in Siria e Iraq, molti ritengono che gli estremisti si siano diretti verso altre aree di crisi, a cominciare proprio dall’Afghanistan. Il 28 dicembre scorso l’Isis rivendicò l’attacco a un centro culturale sciita nel centro di Kabul con 41 morti e 84 feriti e secondo il Site intelligence group, che monitora l’attività jihadista, da ottobre alla fine del 2017 il Califfato ha organizzato almeno otto attentati nella capitale afghana. Il Soufan Center, think tank di New York, rileva che, ovviamente, ciò complica le cose in un’area martoriata da decenni di guerre anche perché l’obiettivo dell’Isis è soprattutto religioso, anti-sciita, e recluta giovani afghani per uccidere civili, mentre l’obiettivo dei talebani resta il governo.

DEBOLEZZE AFGHANE E DIFFICOLTÀ AMERICANE

Già nello scorso ottobre un’analisi del Cesi, il Centro studi internazionali, rilevava che mentre il 29 per cento dei distretti afghani è controverso, i talebani ne controllano l’11 per cento e la loro costante offensiva è agevolata dall’impreparazione e dalla debolezza strutturale delle Andsf (Afghan National Defense and Security Forces). Un mese prima, in settembre, un rapporto dell’ispettore speciale degli Stati Uniti per la ricostruzione dell’Afghanistan, John F. Sopko, ammetteva che la mancanza di un processo politico e istituzionale centralizzato sia una delle minacce principali per la stabilità delle Andsf a lungo termine. Quel rapporto seguiva l’annuncio dell’amministrazione Trump di inviare altre migliaia di uomini per intensificare sia l’addestramento che le operazioni antiterrorismo.

Attualmente gli Usa hanno circa 8.400 unità sulle oltre 13mila di “Resolute support” (anche se nella tabella ufficiale Nato del maggio 2017 erano indicati 7mila americani) e nell’agosto scorso si parlò dell’invio di altre 4mila o 5mila unità. L’ultima analisi del Soufan center, non a caso intitolata “Le guerre senza fine al terrore” riferendosi anche ad altre aree di crisi, ironizza sulle scelte statunitensi degli ultimi anni in Afghanistan e in qualche modo concorda con quel rapporto dell’ispettore Usa. L’impostazione data nel 2001 da George W. Bush per una lotta senza quartiere ad Al Qaeda avrebbe avuto senso, secondo il think tank americano, con conflitti di breve durata, ma 16 anni di guerre portate avanti dalle forze speciali sono uno spreco di risorse e la situazione sta diventando insostenibile. Quell’operatore dei Berretti verdi è l’ultimo esempio. L’aumento di truppe deciso dal Pentagono, rileva ancora il Soufan, vorrebbe far diventare il 2018 l’anno-chiave nel conflitto, ma così facendo si continua a porre in secondo piano l’incapacità politica di realizzare riforme civili e sociali privilegiando l’aspetto militare.

IL RUOLO DELLA RUSSIA

Le decisioni di Trump sull’Afghanistan dovrebbero tenere conto di una più ampia strategia geopolitica. La Russia, pur collaborando con gli Usa soprattutto durante gli anni di Obama, oggi ragiona secondo il proprio interesse e considera l’Afghanistan un tassello di una strategia che comprende tra l’altro Siria, Libia ed Egitto. Un’approfondita analisi sul ruolo di Mosca pubblicata su Foreign Affairs sottolinea che i russi stanno privilegiando un rapporto con i leader talebani anche se sono consapevoli che un teorico ritiro unilaterale degli americani farebbe collassare l’area. In poche parole, la Russia sta cercando di consolidare il proprio ruolo egemone nell’area: sa bene che se i talebani diventano più forti possono essere una minaccia sempre maggiore per il governo afghano, ma non creerebbero problemi agli stati confinanti. Tutt’altra opinione ha dell’Isis, che considera invece un serio pericolo per l’Asia Centrale e per se stessa.

Infine, gli ottimi rapporti di Mosca con il Pakistan possono costituire un ulteriore elemento di frizione con gli Usa. Trump ha appena accusato Islamabad di ospitare terroristi a dispetto degli oltre 33 miliardi di dollari di aiuti versati negli ultimi 15 anni: la conseguenza è stata la convocazione dell’ambasciatore americano. La terra del Grande Gioco resta nevralgica per la sicurezza internazionale e per gli equilibri geopolitici.



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