A dominare le notizie di questi giorni è stata l’affermazione che il neo candidato del centrodestra in Lombardia Attilio Fontana ha espresso sul complesso tema dell’immigrazione. Egli, infatti, ha utilizzato la parola rabbrividente “razza” per spiegare che in Italia vi è un rischio che concerne la nostra civiltà, causato dalla presenza sempre maggiore di stranieri sul territorio nazionale.
Si è trattato, ed è stato detto praticamente da tutti, di un uso non soltanto improprio di un termine, ma effettivamente di un atto di grande ignoranza, non curante della sostanza evocativa psicologica che tale categoria concettuale possiede in se stessa.
Proviamo, però, a dipanare la matassa di idee e commenti, ovviamente suggerendo pacatamente ai nostri amici osservatori europei, che spesso si sentono autorizzati ad intervenire a sproposito su di noi, di starsene rispettosamente fuori dalla mischia, evitando forme ignobili e non richieste di strumentalizzazione.
In primo luogo è necessario distinguere quello che Fontana probabilmente avrebbe voluto dire da ciò che egli di fatto ha detto. Quando si parla di razza, infatti, non ci si riferisce soltanto a una particolarità di tipo culturale, ma a una suddivisione ontologica interna all’essenza dell’uomo riguardante presunte sottospecie disuguali che ne definirebbero biologicamente dei confini gerarchici assoluti.
Questa tesi darwinista ha avuto tutta la sua potenza pseudo valoriale tra la fine del precedente e gli inizi dello scorso secolo, ed è scientificamente e filosoficamente falsa. I risultati allora furono però la discriminazione oggettiva e la logica dei lager perseguita con razionalità psicopatica dalla Germania hitleriana contro gli ebrei e altre minoranze. Per questo è molto difficile perdonare a Fontana la sua palese e infelice ingenuità.
Dopodiché, si tratta però di spostare l’attenzione sulla sostanza sottesa del discorso e di capire invece il problema reale che esiste oggi. È chiaro che in questa nostra epoca storica il fenomeno migratorio è uno dei grandi capitoli drammatici della politica globale. Ed è anche evidente che esistono molte soluzioni praticabili, ma che alla base la sinistra e la destra mondiale si demarcano sui presupposti antropologici e politici che vengono messi in pratica nelle rispettive e contrapposte soluzioni, senza l’ombra minima di alcun razzismo.
Vi è una base etica comune, infatti, a tutti coloro che hanno a cuore il bene ed è il riconoscimento che i diritti umani sono legati all’appartenenza all’umanità e non ad altro. E questo segno universale è quanto fa sì che un uomo sia un uomo. I dati definitori della natura umana sono propri di individui che appartengono al genere corporeo e animale, e alla specie razionale. Nessun uomo è escluso dall’umanità. Nessun’altra specie vivente è inclusa nell’umanità.
Dunque, non esistono culture e civiltà che possano vantare di essere più umane di altre quando regna la sola logica universale possibile in questo tipo di ragionamenti che è quella dell’uomo in quanto uomo. Ecco però che se si scende al di sotto di questo fondamentale presupposto metafisico incontriamo subito due linee divergenti con cui può essere immaginato e politicamente realizzato l’ordine umano globale.
Una cosa, infatti, è pensare la natura umana, valorizzando esclusivamente l’uguaglianza essenziale dei diritti individuali a scapito delle differenze comunitarie, storiche e culturali. E questa è la filosofia con cui la sinistra interpreta l’uguaglianza umana sostanziale, intendendola come omogeneità indifferenziata e pensando quindi che i singoli Stati non solo possano comporsi di cittadinanze multiculturali ma abbiano tutto da guadagnare in umanità ad avvantaggiare e promuovere questo processo di mescolanza. Altra cosa, invece, è riconoscere come pensa la destra che l’uguaglianza non sia mai sostanziale omogeneità indifferenziata, ma si debba coniugare sempre con la concreta e piena valorizzazione delle differenze personali, comunitarie, sociali che storicamente esistono.
A seconda che si opti per il primo o il secondo corno del dilemma viene fuori, quasi come un test, il nostro essere più o meno di sinistra o di destra culturalmente e politicamente. Non a caso Norberto Bobbio insegnava che uguaglianza e differenza sono esattamente la coppia categoriale suprema che più contraddistingue l’originario dualismo tra conservatori e progressisti.
Tornando a Fontana, si può dire che la definizione di natura umana di destra, intesa nel senso aristotelico di un’appartenenza che le singole persone hanno per gradi comunitari all’universalità essenziale del genere umano, sia migliore di quella di sinistra, nel senso platonico di un’essenza univoca partecipata in modo indifferenziato da tutti. Ma evitiamo per favore di chiamare in causa il concetto malefico di razza, perché proprio non c’entra nulla.
Le persone umane sono infatti distinte l’una dall’altra, in modo tale che ciascuna è unica e non omologabile alle altre. Pertanto il concetto stesso di comunità nasce da principi di identificazione che non sono di carattere direttamente universale ma particolare e circostanziato. Pensare che si possa fare a meno della realtà viva delle nazioni, e che uno Stato possa essere democratico e pluralista, senza che i cittadini si riconoscano in una serie di valori e sentimenti peculiarmente identificanti e diversi da altre comunità, è una follia utopista che sta portando il mondo verso la guerra mondiale.
Oggi il tema non è superare lo Stato-nazione, ma rafforzarlo nella propria specificità politica e democratica distinta rispetto ad altri Stati-nazione democratici o non che siano. Un popolo non è uguale ad un altro popolo. E l’ordine globale coincide con una pace tra Stati politicamente separati e molto ben riconoscibili nella propria identità politico-culturale.
Unicamente, infatti, quando un popolo è solido nella sua identità nazionale, che non è etnica ma linguistica, storica e culturale, allora è possibile avere una piena valorizzazione delle differenze individuali che contrassegnano il carattere pluralistico delle democrazie da quello non pluralistico dei sistemi autoritari.
In definitiva, il mito palingenetico di un universalismo umano senza differenze nazionali è la vera causa dell’odio, del razzismo e del fondamentalismo. Mentre il valore e il rispetto delle rispettive identità costituisce l’humus di una convivenza pacifica interna tra comunità dissimili e tra Stati diversi, dentro e fuori l’Europa.