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Caro Silvio, sul jobs act sbagli. Ecco perché

L’ultima beffa di Silvio Berlusconi si riassume nelle seguenti parole rilasciate in una intervista radiofonica: “Se il centrodestra tornerà al governo abolirà il jobs act”. Certamente l’ex premier  ha un’idea molto vaga di che cosa contenga il pacchetto di norme conosciuto con quella definizione.

Sarebbe inutile allora domandargli quale decreto legislativo (tra gli otto che hanno dato attuazione alla legge delega n.183 del 2014) il governo di centrodestra abolirebbe. Ci vuole poco a immaginare che si tratterebbe del d.lgs n.23 del 2015 che ha introdotto il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, la cui principale caratteristica è quella di prevedere, in caso di licenziamento ingiustificato, una tutela normalmente risarcitoria, limitando la reintegra giudiziaria, nel posto di lavoro, a casi particolari. Peraltro, sono convinto che Berlusconi ignori un altro aspetto: abolire il contratto di nuovo conio non significherebbe affatto ripristinare la disciplina canonica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, perché questa norma è già stata modificata – “novellata” in termini generali a valere per tutti i lavoratori dipendenti dei settori privati – dalla legge n.92 del 2012 (riforma Fornero del mercato del lavoro).

Il contratto introdotto dal d.lgs n.23, invece, si applica soltanto ai nuovi assunti a partire dalla data della sua entrata in vigore (il 7 marzo 2015). Chi scrive, a fronte di questa nuova performance del leader del centrodestra, non può che esprimere non solo dissenso, ma anche sbalordimento e indignazione. Già i toni della campagna elettorale sono inaccettabili perché si è aperta una rincorsa a chi le spara più grosse, senza alcun riguardo per niente e per nessuno. Nemmeno per l’intelligenza e il buon senso degli elettori. In questo gioco al massacro a cui partecipano tutti i leader dei partiti e dei movimenti più importanti (difendono come possono i pochi bagliori di raziocinio rimasti talune forze minori, costrette però ad allearsi con compagni di viaggio impresentabili), Berlusconi ha una marcia in più: sembra, infatti, che gli sia consentito di dire, con quella bocca (peraltro rimessa a nuovo), tutto ciò che vuole, tanto non gli crede nessuno. Come se gli fosse concessa la patente del bugiardo; come se fosse una sorta di miles gloriosus della commedia classica. Le parole però a volte uccidono come il piombo.

La mia indignazione nei confronti di questa svolta volgarmente demagogica del leader di Forza Italia nasce proprio dall’essere stato tra i protagonisti delle politiche del lavoro che i governi di centrodestra hanno portato avanti, tra duri e ottusi contrasti da parte della sinistra politica e sindacale. La modifica della disciplina del licenziamento individuale, nel quadro di una maggiore flessibilità del rapporto di lavoro, è stata una delle battaglie più importanti condotte dal centrodestra, in questi anni, riuscendovi solo male e in parte. Il jobs act, sia pure con tanti limiti e compromessi, ha realizzato molti di quegli obiettivi. Durante la discussione in Parlamento il centrodestra accusò il governo e la maggioranza di essere addirittura poco coraggiosi; ora – come se la gente non avesse memoria – si schiera su posizioni che neppure la sinistra-sinistra sostiene più.

Io ero amico di Marco Biagi. È il suo pensiero, la sua visione del diritto del lavoro (insieme con quella di altri giuristi riformisti come Pietro Ichino e di valorosi ministri come Maurizio Sacconi e prima di lui Roberto Maroni) che hanno ispirato il jobs act, al di là delle singole soluzioni tecniche. Oggi sono coloro a cui Marco diede un contributo di sapere disinteressato, a costo della vita, che ne violano la memoria.

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