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Pechino cresce e Trump prepara la guerra commerciale

Il Wall Street Journal spiega che l’aumento della crescita americana ha spinto le importazioni dalla Cina. E sembra una beffa che uno dei principali punti sbandierati da Donald Trump come un successo della sua amministrazione s’incastri con uno dei suoi principali crucci, lo sbilancio commerciale con la Cina; lo scontro tra le due più grandi economie del mondo, dove la seconda è forte anche perché esporta circa trecento miliardi di dollari di beni in più di quelli che importa verso la prima.

Il deficit commerciale degli Stati Uniti con la Cina è aumentato nel 2017 di circa il 10 per cento (8,6%), il valore più grosso degli ultimi cinque anni. E il dato di fatto che esce dice che, in fin dei conti, nel primo anno in cui Trump è stato in carica l’amministrazione americana è stata molto meno dura del previsto con Pechino. Il presidente ha anticipato la questione in un’intervista rilasciata nei giorni scorsi sempre al WSJ: le politiche con (contro) i cinesi sono state finora molto più morbide per via della crisi nordcoreana. Trump è convinto che il dossiar-Pyongyang possa ancora essere un banco di prova per cooperazioni future tra Washington e Pechino, a cui poi agganciare anche le più stringenti questioni commerciali: vorrei essere più duro, ma “ci stanno aiutando molto con la Corea del Nord”, ha detto Trump.

Ma quel dato è inevitabilmente un richiamo per i falchi anti-cinesi, come il delegato al commercio Robert Lighthizer, che nel 2018 potrebbero trovare terreno più fertile per inasprire le policy della Casa Bianca. Ancora di più se si pensa che a renderlo noto per primo è stata l’Amministrazione generale delle dogane cinese. E se si somma a un altro valore che innervosisce Washington: in questi giorni il premier Li Keqiang ha dato il numero sulla crescita economica di Pechino, attestatasi al 6,9 per cento, più del previsto; non è pensar male credere che in certi uffici dell’amministrazione americana sarà letto col commento “a nostre spese” al seguito.

La guerra commerciale che l’amministrazione Trump vorrebbe avviare contro la Cina passa però anche per scontri interni. Il tema del momento sono le tassazioni che Washington vorrebbe imporre su acciaio e alluminio, dove da anni si denuncia il gioco scorretto – con prezzi a ribasso e concorrenza sleale – cinese. L’idea è di applicare una vecchia legge per imporre questi dazi, ma il gruppo di consiglieri più globalisti  – come il consigliere economico Gary Cohn, il capo del Pentagono James Mattis, il segretario al Tesoro Steve Mnuchin – pensano che “sarebbe una sciagura” (per dirla come Jonathan Swan di Axios), un’idea insana che altererebbe i rapporti con gli alleati Europei e il Canada – che subirebbero il peso della tariffazione – e creerebbe un terremoto all’interno del Wto.

Dall’altro lato della barricata il consulente commerciale Peter Navarro e il segretario al Commercio Wilbur Ross, sostenitori dei dazi protezionistici per difendere l’industria siderurgica in nome dell’America First che ha portato fortuna al presidente. Ross nei giovedì scorso ha presentato personalmente a Trump i risultati di uno studio condotto dal suo staff sugli effetti delle importazioni dell’acciaio sulla sicurezza nazionale. Il segretario ha visioni nazionaliste aggressive contro la Cina, e dunque è lecito pensare che sul report ci sia una lettura dura nei confronti del ruolo e del gioco di Pechino.

Lighthizer comunque sta lavorando soltanto contro la Cina, e dunque sta tenendo da parte l’applicazione dei dazi generali sull’acciaio. L’idea americana, che il consigliere ha comunicato al presidente in un incontro tenuto due giorni fa, è colpire in modo specifico il Dragone preservando i rapporti commerciali con gli altri paesi. Potenziali provvedimenti punitivi contro la Cina potrebbero includere tariffe d’import su prodotti di fabbricazione “Made in Prc”, in particolare sembra l’elettronica di consumo il terreno di scontro, o nuovi limiti legali alla capacità della Cina di investire in società americane, o ancora proteggere con forza la proprietà intellettuale americana.



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