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Olimpiadi invernali in Corea del sud. Prove di dialogo tra Pyongyang e Seul

I segnali positivi provenienti in questi giorni dalla Penisola Coreana, e soprattutto da Pyongyang, sono decisamente incoraggianti. Le XXIII Olimpiadi d’Inverno, che si terranno dal 9 al 25 Febbraio prossimo venturo, avranno luogo, infatti, nella contea di PyeongChiang, che si trova nella Corea del Sud, ovvero in quella che ufficialmente si chiama Repubblica di Corea.

Il Comitato Olimpico Internazionale ha sempre, fin dalla designazione della Corea del Sud, nel Giugno 2017, esplicitato che desiderava la partecipazione ufficiale ai giochi d’Inverno di Pyongyang, ha naturalmente accolto con piacere e con un po’ di sorpresa l’annuncio, da parte della Corea del Nord, del “probabile” invio di una piccola squadra di pattinatori su ghiaccio. Gli atleti dello slittino e gli sciatori della Corea Settentrionale, peraltro, già non si erano tecnicamente qualificati per le Olimpiadi.

Seoul aveva proposto, fin dall’inizio, una squadra unitaria per tutte le specialità olimpiche presenti nei giochi della Contea del Sud; poi avevano suggerito a Pyongyang una squadra unificata femminile per l’Hockey su ghiaccio e, ma l questione era aperta fin dal Dicembre 2014, la divisione dei costi per la partecipazione coreana, ovvero di entrambi i Paesi, alle XXIII Olimpiadi d’Inverno di PeyongChiang. La Corea Settentrionale aveva rifiutato, in quel momento, e la cosa non è affatto secondaria, solo per motivi di tempi organizzativi, non aveva sollevato né allora né oggi questioni di principio. Naturalmente, per ovvi motivi di dignità nazionale, la Corea del Nord ha esplicitamente rifiutato la suddivisione delle spese di partecipazione e organizzazione. Ma occorre qui ricordare che, fin dall’inizio, Pyongyang aveva sostenuto fortemente, unicamente e solo la candidatura della Corea del Sud, a ospitare le XXIII Olimpiadi d’Inverno del 2018.

Quindi, parteciperanno ai Giochi Ryom-Tae-Ok e Kim Ju-Sik, della Corea Settentrionale, che si erano qualificati entrambi per i Giochi del 2018 durante le gare del settembre 2017 in Germania, a Oberstdorf.

Alcuni problemi sono sorti, successivamente, nei rapporti tra il Comitato Olimpico di Pyongyang e il CIO di Losanna, responsabile massimo dello sport mondiale. Ma è stato il Leader Supremo della Corea del Nord, Kim Jong-Un, a annunciare personalmente la possibilità di inviare sportivi di Pyongyang alle XXIII Olimpiadi d’Inverno sudcoreane, un permesso esplicito avvenuto in una occasione particolare e altamente simbolica, quella del discorso del Grande Leader per il Nuovo Anno.

Il tema primario del Leader Supremo di Pyongyang è quello dell'”orgoglio nazionale”, che conta moltissimo per entrambi i Paesi, il più tragico relitto della vecchia guerra fredda, uno sciocco conflitto che sia Seoul che Pyongyang vogliono superare, ma in modo diverso. Credo che, su questo piano, valga per entrambe le Coree la teoria di Mao Zedong della guerra fredda come “tigre di carta”. Ma, spesso, il modo di superamento non è troppo diverso.

Il 9 Gennaio si sono tenuti gli incontri tra le due Coree (termine che ormai spero mi sembra in futuro impreciso) per la questione della partecipazione del Nord ai XXIII Giochi Invernali, che si è conclusa con il raggiungimento di un accordo tra i due Paesi. Sia Seoul che Pyongyang erano assolutamente coscienti, anche nei minimi particolari, politici, simbolici e cerimoniali, di quello che era davvero in gioco in questa trattativa, apparentemente solo sportiva. Ovvero, un accordo tra le due Coree prima di chiudere, con Tokyo, Mosca, Washington e Pechino, la questione del pieno rientro, con pari dignità, di Pyongyang nell’ambito internazionale e quindi nel mercato-mondo.

Forse, si potrà parlare nei prossimi anni, se tutto va bene, di uno sharing strategico e militare tra Seoul e Pyongyang, la costituzione di un “potenziale N e chimico-batteriologico” in tutta la penisola coreana, le cui chiavi saranno detenute anche a Tokyo, Mosca e, forse, se non faranno ancora altri errori, a Washington.
L’UE starà a vedere, come al solito, credendo di essere parte delle trattative e rimanendo a fare, come al solito, la ridicola mosca cocchiera, magari fornendo “aiuti umanitari” alle parti, sostegni magari nemmeno richiesti.

Lo avevamo già detto in momenti non sospetti. Ci eravamo riferiti soprattutto alle esercitazioni congiunte del Novembre scorso, tra le forze russe e quelle cinesi, nel Mare di Okhotsk. Quel Mare è, sia per Pechino che per Mosca, l’area ottimale per lanciare attacchi verso le basi Usa nel Pacifico.

Il messaggio era chiarissimo: regionalizzare con rapidità e chiarezza strategica la questione Nord-Sud tra le due Coree, rafforzare i legami di Russia e Cina con entrambe, togliere ogni speranza agli americani riguardo ai dissapori tra Kim Jong Un e Xi Jinping, che non potranno mai essere un utile cuneo per Washington. Un messaggio ulteriore, quindi, agli americani il quale chiariva che ogni ulteriore aumento della presenza militare Usa nella Corea del Sud non sarebbe stato assolutamente accettato né da Mosca né dalla Cina Popolare. E non come protettori di Pyongyang, ma come potenze direttamente confinanti con un’area nuclearizzata.

Lo abbiamo già detto, ma vale qui la pena di ripeterlo: la Cina non accetta in alcun modo una egemonia militare Usa che annulli il potenziale N e convenzionale della Corea del Nord, unico antemurale possibile tra Pechino e i coreani del Sud, alleati di ferro di Washington. Ma anche, sul piano economico, di Pechino.

Il saldo militare degli Usa nell’area è ben noto: 35.000 soldati e ufficiali nordamericani in Corea Meridionale, 40.000 in Giappone, quasi 4000 a Guam, una isoletta a 2100 chilometri da Pyongyang, avente la superficie di soli 544 chilometri quadrati. Per non parlare poi delle cinque basi Usa nelle Filippine, oltre che delle quattro navi da guerra di Washington aventi base a Singapore, senza contare qui anche i permessi di sorvolo e di attracco, per le FF.AA. nordamericane, concessi dalla Tailandia. E non dimentichiamo qui nemmeno il rilevante posizionamento strategico di Washington nelle Hawaii, con altri 400.000 tra soldati, marinai e ufficiali e ben ulteriori 200 navi militari a disposizione, con oltre mille aerei da guerra di varia dimensione e funzione stazionati nell’atollo che vide l’attacco vincente e a sorpresa dell’ammiraglio giapponese Togo.

Poi non dimenticheremo nemmeno la base navale Usa a Kadena, nell’isola di Okinawa, oltre a alcune basi stealth, poste anch’esse nell’arcipelago giapponese. Che Pyongyang si senta quindi strategicamente chiusa e duramente minacciata, non è, lo diciamo onestamente ai nostri amici americani, una paranoia delle classi dirigenti di Pyongyang, è solo un fatto incontrovertibile. Per fare cosa, poi? “Portare la democrazia” a Pyongyang? Una gran parte della sfiducia con cui si guarda, nella Corea Settentrionale, alle dichiarazioni degli Usa riguarda infatti il comportamento imprevedibile, autolesionista e, sostanzialmente, improprio che Washington ha tenuto con l’Iraq di Saddam prima e con la Libia di Gheddafi poi.

Pyongyang non vuole primavere “coreane”, condite da lingue biforcute, che lasciano solo macerie e frazionano, per un folle progetto di continous war, le vecchie unità nazionali e ben rodate dalla storia. La Cina non ha poi nemmeno accettato che Washington premesse, con qualche ingenuità, nei suoi confronti, al fine di diminuire il rilievo e la portata del programma missilistico N nordcoreano.

Pechino, come accade in tutta la tradizione sapienziale cinese e orientale, non vuole certamente fare da “secondo” agli Usa. E non vuole nemmeno apparire, malgrado le recenti freddezze, nemica o lontana dalla Corea del Nord, antichissimo “paese fratello” che mai la dirigenza di Xi Jinping lascerà in mani occidentali. Pechino può invece volere, se e quando gli equilibri globali lo permetteranno, ma lo abbiamo sempre detto, e la realtà verificato, una razionale riduzione bilanciata dell’ombrello N di Pyongyang.

E questo per ridurre un reale pericolo di attacco indesiderato o casuale e per mostrare benevolenza, quando occorrerà, alla Corea del Sud e ai nordamericani. Il sistema nucleare nordcoreano è quindi un chip che Pechino userà al suo tavolo da Poker, ma mai contro i vecchi “compagni” di Pyongyang che, anzi, da questa riduzione bilanciata del potenziale N missilistico (e batteriologico-chimico, pare strano che gli Usa, che forse ne sanno troppo poco, non lo mettano nel conto) con i nordcoreani, i quali potrebbero trarne buoni vantaggi economici, senza particolari diminuzioni del valore della loro minaccia verso sud-est.

La Cina rappresenta e rappresenterà in futuro il 90% e oltre dell’interscambio economico di Pyongyang verso l’esterno; ma i cinesi, da ottimi lettori di Marx, non si comportano mai da “materialisti volgari” nell’analisi dei rapporti internazionali. Ironia della sorte delle ideologie, che non sono mai morte, sono solo i liberali del big business che pensano, oggi, nei termini che erano caratteristici della vulgata comunista.


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