La governance dell’eurozona sta diventando un punto cruciale delle proposte di riforma dell’Unione Europea. La sua manifesta incapacità di gestire la crisi dei debiti sovrani in maniera equa e sostenibile (che ha costretto la Bce a manovre al limite del suo mandato, in attesa che i governi europei mettessero mano al completamento dell’unione bancaria, fiscale ed economica) ha spinto la Commissione Europea a realizzare un ampio pacchetto di documenti sul completamento dell’Unione economica e monetaria (UEM) lo scorso 6 dicembre .
Ed ha portato un autorevole gruppo di economisti francesi e tedeschi ad immaginare un percorso di trasformazione della UEM. Il documento, reso pubblico qualche giorno fa (CEPR Policy Insight, 91/2018), ha un pregio: quello di fornire un quadro di riforma della governance e delle istituzioni europee, volto ad aumentare la resilienza dell’eurozona, realizzando un non facile compromesso fra le posizioni francesi, maggiormente orientate alla condivisione dei rischi, e quelle tedesche, più attente alla disciplina fiscale. Un documento quindi che potrebbe diventare realisticamente una proposta congiunta di Francia e Germania su un eventuale tavolo negoziale europeo.
Il compromesso prevede almeno tre elementi, fra loro interconnessi. Primo: una riforma del settore finanziario che miri a risolvere celermente il problema dei cosiddetti non-performing-loans tramite una più radicale politica di supervisione (di concerto fra Bce e Banche Centrali nazionali, ciascuna per la sua competenza); e ad aumentare la distribuzione collettiva del rischio, anche con la riesumazione del terzo pilastro (per il momento accantonato) dell’unione bancaria, relativo ad un meccanismo unico di assicurazione sui depositi. Il tutto nel quadro di un rinnovato impegno alla completa unificazione del mercato dei capitali, ancora eccessivamente frammentato.
Secondo: la riforma della politica fiscale basata su una maggiore attenzione sia alla stabilità che alla crescita. In questo ambito, viene proposto di diminuire la pro-ciclicità delle regole fiscali, in particolare con lo storno, dagli indicatori di deficit, delle spese per interessi e per alcuni ammortizzatori sociali (come l’indennità di disoccupazione). Allo stesso tempo viene proposto di coprire ulteriori sforamenti dai target di deficit con un debito “junior” (dotato di minori garanzie), collocabile sul mercato a costi presumibilmente più elevati (e fornendo quindi un disincentivo al suo utilizzo). Il problema dell’enforcement delle regole fiscali viene così risolto con meccanismi di mercato, piuttosto che affidarlo alle farraginose procedure d’infrazione (scarsamente credibili e complicate da mettere in atto). Viene inoltre previsto il rafforzamento dello European Stability Mechanism (ESM) e della sua condizionalità nei casi di accesso alle sue risorse.
Terzo: le riforme istituzionali, orientate interamente alla separazione dei poteri fra la sorveglianza macroeconomica e le decisioni politiche, sono esplicitamente contrarie alle indicazioni del documento della Commissione del 6 dicembre scorso. L’unico riferimento al ruolo del Parlamento Europeo, che ricordiamo essere l’unica istituzione diretta espressione dei cittadini europei, è alla necessità per il Direttore dell’ESM di “spiegare e giustificare le proprie scelte” nella relativa Commissione del PE.
Il principale pericolo di questo documento è di rappresentare una base di discussione aperta (chi lo condivide può sottoscriverlo) ma non negoziabile (che i suoi punti non siano cioè politicamente emendabili) per gli altri governi che si volessero accodare al processo di riforma (perché è chiaro che i rispettivi governi apprezzano ed hanno probabilmente incentivato l’iniziativa). Per questa ragione, è essenziale che la discussione pubblica in Italia si apra immediatamente e in maniera ampia, per proporre ulteriori elementi di discussione che possono rischiare di essere esclusi a priori dal dibattito politico europeo.
Tra questi, a nostro avviso, non possono mancare le seguenti considerazioni.
Primo: la non pro-ciclicità delle regole fiscali non può essere lasciata solo all’indennità di disoccupazione, ma prevedere una più ampia gamma di ammortizzatori sociali e servizi collettivi, soprattutto quelli legati alla formazione del capitale umano (cultura, educazione) e all’innovazione (ricerca e sviluppo), ossia ai fattori che incidono sull’ampliamento dell’output potenziale, dal quale dipende in ultima analisi la crescita e quindi la sostenibilità del debito. La logica del Fiscal Compact (rientro verso il 60% di stock di debito) deve essere rivista completamente: la sostenibilità del debito dipende in ultima analisi dalle aspettative sulla crescita, non da indicatori oggettivi. E soprattutto dipende dalle competenze affidate a ciascun livello di governo (nazionale e sovranazionale). Qualsiasi piano di rientro dal debito deve essere accompagnato da una riforma complessiva delle competenze, nel quadro di un nuovo patto costituzionale europeo. Le due trattative devono andare di pari passo.
Secondo: prevedere il rafforzamento dell’attuale ESM significa lasciare le decisioni ultime in materia economica ad un organo intergovernativo, il che non è tollerabile nell’ottica della creazione di una genuina democrazia sovranazionale e dell’accountability delle sue scelte politiche. Solo in questo caso (con la sua trasformazione in un Fondo Monetario Europeo affidato ad una governance in mano alle istituzioni europee, rese maggiormente democratiche e senza alcun ricorso al voto all’unanimità) può essere accettata una maggiore condizionalità, prevista dal documento degli economisti franco-tedeschi per sopperire al minor grado di condizionalità espresso dal Fmi negli anni più recenti (caso Grecia).
Inoltre, è inaccettabile che non sia fatto alcun cenno, ampiamente presente nei documenti della Commissione, ad un fondo che eroghi risorse per investimenti collettivi in beni pubblici su scala europea (necessari sia in termini di maggiore efficienza economica, sia di rilevanza politica). Coerentemente con questa carenza, non si fa alcun cenno alla creazione di una fiscal capacity autonoma, legata alle risorse proprie ed all’emissione di eurobond orientati a finanziare specifici progetti europei. Per lo stesso motivo, le carenze istituzionali dell’attuale sistema di governance economica e politica europea sono assolutamente sottostimate.
Il documento, in sostanza, è ad oggi un patchwork di posizioni fra loro antitetiche, che deve essere ancora smussato e reso maggiormente coerente, se si vuole che diventi effettivamente cantierabile per l’intera eurozona. E un contributo italiano, come altre volte è successo nel passato, appare in tal senso essenziale.