Mentre a Pyongyang si lavora alacremente per terminare l’ultimo “giocattolo” di Kim Jong-un, il nuovo missile balistico intercontinentale ICBM, progettato per poter rientrare nell’atmosfera senza subire danni, il Pentagono e l’amministrazione americana studiano tutte le soluzioni sul tavolo, anche quella militare, patrocinata dal generale McMaster, consigliere per la Sicurezza Nazionale mal sopportato dal direttore della Cia Mike Pompeo e dal Segretario della Difesa James Mattis. La tensione resta alta: sabato mattina gli abitanti delle Hawaii hanno vissuto un risveglio da incubo. Sui loro telefonini un messaggio del Sistema di allerta emergenziale: “Minaccia di un missile balistico diretto alle Hawaii. Non è un’esercitazione”. Falso allarme dovuto a un errore umano, si è scoperto quaranta minuti dopo.
Ciononostante Trump rivendica “gli ottimi rapporti” con Kim. E definisce “stupido” chi non gli dia il merito della prima, timida apertura fra Seul e Pyongyang: l’incontro bilaterale delle rispettive delegazioni per discutere delle olimpiadi invernali sudcoreane. Viene da chiedersi se la strategia del “Fire and Fury” abbia davvero prodotto i suoi primi effetti. Per Ian Bremmer, presidente di Eurasia Group e professore della New York University, non ci sono dubbi: Trump ha ottenuto di più di chi lo ha preceduto. In questa conversazione con Formiche.net ci spiega perché.
Ian Bremmer, cosa significano questi dialoghi olimpici fra Seul e Pyongyang?
Mettiamola così. I sudcoreani desiderano davvero che le olimpiadi vadano bene. E i nordcoreani sono ben disposti a un po’ più di flessibilità in un round negoziale che esclude gli Stati Uniti. Credo ci sia un’opportunità nel breve periodo: si potrebbe convincere la Corea del Nord ad abbandonare i test per un po’ se i sudcoreani rinunciassero alle esercitazioni militari e offrissero al Nord gli aiuti economici che la Cina ha già affossato.
Dunque sono un primo passo verso la distensione fra Nord e Sud?
Dobbiamo rimanere scettici sulla possibilità che questi dialoghi vadano da qualche parte, per due ragioni. La prima: in passato i nordcoreani non hanno mai rispettato i termini di un accordo, che fosse sulle ispezioni esterne, i test nucleari o sul contrabbando. La seconda: la posizione americana continua a rimanere quella della denuclearizzazione, che è totalmente inconcepibile per la Corea del Nord.
Con l’Iran però gli Stati Uniti ci sono riusciti.
Le due parti sono molto più distanti di quanto non fossero gli americani e gli iraniani prima dell’accordo sul nucleare. Oggi gli Stati Uniti sono molto più disposti a discutere un’opzione militare. E Trump è molto più imprevedibile di Obama per la sua inesperienza e la sua sensibilità diplomatica. Per tutte queste ragioni le possibilità che questa storia finisca male sono molto alte.
Come valutano gli statunitensi queste prime aperture?
Dipende di chi parliamo. Il segretario di Stato Rex Tillerson ha voluto per molto tempo un negoziato, altri no. Ad esempio c’è incompatibilità con la linea dura del generale McMaster. Come americani dovremmo essere contenti per un motivo: ogni volta che c’è un’attività diplomatica in corso è meno probabile fare un errore di calcolo che porti alla guerra.
È merito di Trump se oggi Seul e Pyongyang riprendono a parlarsi, anche se solo di sport?
Assolutamente si. Trump ha il merito di aver convinto i cinesi a votare per le sanzioni nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ma anche di aver fatto abbandonare a Pechino le joint ventures che portavano un sacco di soldi nelle casse della Corea del Nord. Tutto questo ha aiutato a far sedere a un tavolo i nordcoreani. Di più: gli Stati Uniti hanno spinto i sudcoreani a incontrarsi da soli con i nordcoreani senza il loro supporto. È anche vero però che Trump ha reso Kim Jong-un particolarmente incline a testare nel 2018 un missile che abbia la capacità di rientro atmosferico, le precedenti amministrazioni americane non l’hanno ritenuto così urgente.
La linea Trump dunque funziona più di quella dei suoi predecessori?
La situazione nordcoreana negli ultimi venti anni è rimasta uno status quo che si è lentamente eroso. Con Trump ci sono chances molto più alte di un negoziato che dia una svolta, ma anche la probabilità di giungere a un conflitto armato. Ricerche scientifiche come quelle di Amos Tversky e Daniel Kahneman hanno rivelato come la maggior parte delle persone sia avversa al rischio e tenda ad evitare grosse perdite. Questo spiega perché i presidenti che hanno preceduto Trump abbiano lasciato correre, anche se la situazione continuava ad erodersi. Trump è un leader inusuale, accetta più facilmente i rischi, non ha esperienza militare e l’idea di perdere un po’ di sudcoreani non lo tocca particolarmente.
L’approccio alla crisi nordcoreana non sembra così diverso dalla linea seguita con il riconoscimento di Gerusalemme capitale e l’accordo sul nucleare iraniano.
Gerusalemme è un caso diverso. In Medio Oriente, eccetto che per israeliani e palestinesi, non è una questione prioritaria. La decisione di Trump è stata un espediente politico, che ha un grosso impatto negli States e molto meno a livello internazionale. Il caso dell’Iran invece è più simile a quello nordcoreano: de-certificando l’accordo sul nucleare Trump sta rischiando un serio isolamento internazionale e provocando l’instabilità nella regione.
In questi giorni si discute di una serie di opzioni militari preventive che gli Stati Uniti potrebbero valutare per neutralizzare l’arsenale di Kim. Uno di questi è il “bloody nose”, un attacco mirato alle infrastrutture strategiche per mettere Pyongyang in ginocchio. Può funzionare?
La potenziale strategia del “pugno in faccia” non è altro che un tentativo, difeso da McMaster, di guadagnare credibilità agli occhi della Cina e degli altri attori regionali. Certo, potrebbe funzionare. Se ci fosse un attacco mirato alle strutture strategiche nordcoreane, senza abbattere il regime, Kim potrebbe pensare: “Se ci attaccano un’altra volta saremo distrutti, quindi è il caso di fare un passo indietro”. Ma non scordiamoci che gli alti ufficiali di governo nordcoreani hanno sopportato la fame e la guerra, il popolo nordcoreano ha sofferto molto più di chiunque altro nella guerra di Corea. È difficile mettersi nei panni di chi ha vissuto per decenni sotto un regime totalitario. Questi ufficiali sanno bene che moltissimi nordcoreani perderebbero la vita con la guerra, ma sanno anche che il loro Paese sopravviverà al regime, per questo sono disposti ad accettare un conflitto molto più dei sudcoreani o dei cinesi.
McMaster, dicevamo, spinge per un intervento militare. Voci di corridoio degli ultimi giorni lo vorrebbero però in uscita dalla Casa Bianca, con il direttore della Cia Mike Pompeo pronto a prendere il suo posto. Cosa cambierebbe nella strategia di contenimento di Pyongyang?
Se il segretario della Difesa James Mattis rimanesse al suo posto non cambierebbe molto. Qualora Pompeo divenisse Consigliere per la Sicurezza Nazionale, più che della Corea del Nord, mi preoccuperei del destino dell’accordo sul nucleare con l’Iran, che potrebbe essere mandato a monte, perché su questo Pompeo è sempre stato molto ideologico.
Il worst-case scenario è un intervento militare “boots on the ground”, con effetti e perdite devastanti. Come reagirebbe la Cina di Xi?
Non credo che i cinesi stiano pianificando un intervento militare. La Cina è una potenza globale sul lato tecnologico ed economico, ma è a malapena una potenza regionale sul lato militare, farà qualsiasi cosa in suo potere per evitare un scontro armato con gli Stati Uniti. Non ha alcun interesse a una guerra in Corea: l’economia della regione ne uscirebbe devastata, la catena di approvvigionamento distrutta, e avrebbe inizio una vera guerra commerciale fra Cina e Stati Uniti.