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La politica economica del centrodestra? Promette un maggior rigore di bilancio

I programmi elettorali hanno quasi sempre due componenti. La prima componente è quella dell’enumerazione di un numero più o meno grande di proposte specifiche, più o meno dettagliate, che sono dirette essenzialmente a catturare il consenso delle varie categorie di elettori agendo sul loro interesse particolare. L’altra componente è quella che riguarda il quadro generale di politica economica, sociale e istituzionale, cioè la visione di società e di economia che si propone agli elettori e nella quale le proposte particolari si inseriscono e dovrebbero armonizzarsi in un quadro coerente. Ma non si può pretendere che queste due componenti siano così chiaramente distinte e al tempo stesso armonizzate. Ad esempio, per limitarci agli aspetti della politica economica e sociale che devono trovare nel bilancio pubblico il necessario supporto operativo, ci sembra un esercizio futile cercare di trovare esatta corrispondenza o coerenza quantitativa tra le singole proposte e quella generale di politica economica. I programmi elettorali non sono leggi di bilancio, con somme e totali certificabili da organi di controllo, anche se dovrebbero chiarire quali siano le linee generali di politica economica, la loro coerenza interna e, per quanto possibile, la loro sostenibilità.

Da questo punto di vista, i tre schieramenti principali presentano proposte di politica economica che, almeno in base alle informazioni rese disponibili, sono più diverse tra loro di quanto forse appaia. Esaminiamone i punti centrali.

Il Pd nella versione renziana pensa che ci voglia più deficit, anche se nei limiti della regola del tre per cento, per continuare le politiche di sostegno alla domanda con varia distribuzione di maggiori spese e qualche beneficio fiscale fondato su bonus e deduzioni varie. Nella versione governativa corrente, l’idea è che si debba procedere lungo un “sentiero stretto” di maggior controllo del deficit, nella speranza evidentemente che la crescita globale si rafforzi trainando, anche se in modo attenuato l’Italia, e che ciò possa portare almeno ad un contenimento del rapporto debito/Pil per non agitare troppo l’Europa. Diciamo che si tratterebbe di attuare un blando e timoroso keynesismo, attraverso un prudente e pragmatico wait and see. Una visione sostanzialmente conservatrice, non nel senso politico usuale, ma di resistenza al cambiamento rapido, per non spaventare quella parte delle famiglie e delle imprese che, pur lamentandosi, hanno paura del nuovo.

Il Movimento Cinque Stelle, non presenta un vero e proprio quadro di politica economica. Tuttavia sembra di cogliere che le proposte che potremmo definire di politica sociale (reddito e pensioni di cittadinanza), così come gli investimenti pubblici di cui propongono, al pari di tutti gli altri schieramenti, l’ampliamento, non debbano trovare limiti in un obiettivo definito di deficit pubblico. Sarà la crescita futura, a quanto si capisce, a consentire di finanziare riduzioni fiscali e aumenti di spesa sociale, anche per soddisfare, ma nel lungo termine di dieci anni cioè oltre il controllo di fine legislatura, l’obiettivo dichiarato di riduzione del rapporto debito/pubblico.

L’impressione, nel complesso, è quella di una proposta di espansione della spesa sociale, che è nel Dna del Movimento, senza accettazione dei limiti delle regole di bilancio europee, anche se poi sarà in futuro necessario un maggior gettito per sostenerla. La visione che ne emerge, al di là delle valutazioni contabili, è quella di un ampliamento del ruolo dello Stato (più spesa, più entrate) come motore e soprattutto protettore della società. Una visione che potremmo definire di Stato etico distributivo di stampo pre-moderno.

Infine, abbiamo il programma del centrodestra, che va dedotto non solo dalla sintesi in dieci punti del documento condiviso tra le sue quattro componenti, ma anche da quel che si legge nel documento circolato di Forza Italia. Questo programma si contrappone nettamente agli altri di cui abbiamo parlato perché è l’unico che parte dall’idea di una chiara e netta riforma strutturale, la riforma fiscale, come fulcro di una politica di offerta.  Il centro della proposta è quello di attuare una riforma fondata sull’idea di flat tax che, diversamente da come viene a volte percepita, non è in sé sinonimo di riduzione complessiva delle tasse. Tant’è che l’aliquota di cui parla Berlusconi (23 per cento) è diretta sostanzialmente ad autofinanziare la riforma, che vuol dire, in altre parole, mantenere sostanzialmente inalterato il livello del gettito fiscale.

I suoi effetti strutturali positivi sull’economia verrebbero dalla semplificazione del sistema fiscale e quindi dall’incentivo a produrre più reddito, perché imprese e famiglie avranno chiaro il livello di tassazione a cui andranno incontro man mano che riusciranno ad aumentare il loro reddito, e senza discriminazioni distorsive tra tipi di reddito.

La flat tax è quindi solo il modo in cui verrà attuato l’obiettivo di riduzione della pressione fiscale, anch’esso posto in modo chiaro, almeno nel quadro macroeconomico specificato dal programma di Forza Italia. L’idea è di bloccare, per il periodo di legislatura, l’ammontare in valore assoluto nominale del prelievo fiscale parallelamente all’invarianza della spesa nominale corrente. Ciò significherebbe essenzialmente due cose. La prima: interrompere l’aumento parallelo di tasse e spesa che ha caratterizzato fino ad oggi la crescita del big government. La seconda: far sì che la pressione fiscale, cioè il prelievo fiscale in rapporto al debito, decresca automaticamente con il crescere del reddito. Non si tratta quindi di tagliare il gettito fiscale e la spesa attuale, ma di interromperne la crescita stabilizzando anche le aspettative dei contribuenti perché anche il deficit pubblico in rapporto al Pil diminuirebbe progressivamente. Le stime che girano dicono che in tal modo la pressione fiscale diminuirebbe di un punto l’anno nel corso della legislatura parallelamente alla spesa, con aumento dell’avanzo primario e conseguente diminuzione del rapporto debito/Pil. Quando Berlusconi dice che si partirà da una aliquota di flat tax del 23 per cento e poi si scenderà, spiega in realtà questo meccanismo.

Ma la vera contrapposizione tra il programma del centrodestra e gli altri non risiede nei dettagli tecnici della politica di bilancio proposta, ma nel fatto che esso presenta, con la riforma fiscale, una visione di società in cui il peso dello Stato deve diminuire. La scommessa sulla crescita non si basa su un aumento del deficit, ma sul fatto che la riforma fiscale agirà sugli “animal spirits” della società italiana, determinando un nuovo dinamismo e una nuova spinta ad investire e consumare. Vi si coglie una inversione di logica: è la crescita determinata dalla riforma strutturale che consentirà di ridurre progressivamente le tasse, e non il contrario. In tal senso, la proposta del centrodestra, se attuata, è quella che promette il maggior rigore di bilancio ed è quindi anche la più vicina all’Europa, non mettendone affatto in discussione gli obiettivi di consolidamento fiscale, ma facendoli propri in un nuovo contesto.

 

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