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Cosa è il naso sanguinante. La tecnica di Trump per colpire Kim

Trump, Cina, naso sanguinante, congresso

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha mostrato un segno di apertura nei confronti del regime nordcoreano, spiegando che sia Washington che Seul potrebbero essere pronti a intavolare un dialogo diretto con il “Little Rocket Man” – come Trump usualmente chiama Kim Jong-un – quando sarà “il momento appropriato”.

Due giorni fa, però, mentre la Corea del Nord e quella del Sud si incontravano per la prima volta dopo quattro anni, decidevano la partecipazione di una delegazioni alle Olimpiadi invernali che si svolgeranno a PyeongChang (nel Sud), e raggiungevano un accordo per la riapertura della linea di comunicazione militare, il Wall Street Journal pubblicava un articolo a proposito di un metodo che i funzionari americani starebbero pensando per colpire militarmente Pyongyang senza suscitarne una potente rappresaglia.

L’idea che gli strateghi statunitensi stanno portando avanti come opzione per soddisfare anche le richieste più aggressive del presidente (che vuole avere l’intera panoplia, armata o diplomatica, a propria disposizione) passa sotto il nome di “bloody nose” – naso sanguinante (come quello che lascia un jab ben assestato – e consisterebbe nell’attaccare un’infrastruttura strategica nordcoreana non appena Kim dovesse decidere di dare il via a un nuovo test atomico (o anche missilistico). Nell’ottica americana quell’attacco dovrebbe essere così immediato, efficiente, sorprendente, da lasciare stordita la satrapia e bloccarla da eventuali reazioni, con l’idea che quel che potrebbe seguire potrebbe essere molto peggio. È noto – lo dicono da molto tempo gli esperti – che a questo punto il Nord è un nemico attrezzato, e, se dovesse essere colpito, Kim potrebbe scaricare la sua ira contro il Sud, con migliaia di potenziali vittime nel mirino delle sue armi (anche soltanto le migliaia di bocche di cannoni d’artiglieria un po’ arrugginiti piantati sul 38esimo parallelo che divide i due stati sarebbero devastanti).

Il bloody nose è molto rischioso, e per questo secondo il WSJ c’è un grosso dibattito all’interno dell’amministrazione se usarlo o meno; è un discussione nella discussione, perché il punto centrale è che strade prendere, la negoziale o la armata, con Pyongyang. Colpire il Nord con una risolutezza tale da umiliare Kim ed evitare il bagno sangue è in effetti un’idea non nuovissima, da mesi si parla della possibilità di un cosiddetto preemptive attack, di un’azione eccezionalmente mirata, che però non ha dalla sua la possibilità di prevedere reazioni; ossia, come valuti preventivamente la risposta di Kim? Impossibile, dicono non solo gli scettici.

La notizia, oltre per la cosa in sé, ha un suo peso per la tempistica e per due ragioni: primo, arriva quando le due Coree hanno mostrato segnali di distensione, certamente grazie all’atteggiamento dialogante di Seul, e anche Washington sembra tenere aperta questa strada; secondo, esce sul WSJ dopo che da mesi si assiste a un avvicinamento tra Donald Trump e Rupert Murdoch (che edita il Journal): il giornale di Wall Street ha ottime fonti, ottime informazioni, e soprattutto s’è dato il compito di mandare un messaggio repubblicano plasmato in modulo trumpiano-polite. Da quando il 20 dicembre il Telegraph ha avuto la sua esclusiva sulla possibilità del naso sanguinante, siamo arrivati adesso al punto che l’amministrazione Trump sta “seriously“, seriamente, valutando l’attacco, aspetto che dà sostanza alla retorica apocalittica perpetrata per mesi dal presidente, che però nel suo ultimo passaggio sulla crisi ha aperto alla possibilità di dialogo.

Aspetti tecnici: ma di che tipo di attacco potrebbe trattarsi? Più o meno gli esperti concordano che di opzioni reali, in grado di evitare una guerra catastrofica, ce ne sono pochissime: colpire con missili balistici – come successo in Siria per punire l’attacco chimico di Kahn Shaykoun – darebbe sufficiente tempo a Kim, perché i missili volano a velocità subsoniche e la Corea del Nord monitora attentamente le sue coste (dunque Pyongyang avrebbe modo per organizzare la risposta prima di subire lo shock dell’attacco); un’azione aerea avrebbe il problema di rischiare di incappare nella difesa nordcoreana, con l’incubo di un potenziale abbattimento di un velivolo (nightmare-scenario: organizzare una missione per recuperare un pilota abbattuto sul suolo nordcoreano, fallirla e vederlo pubblicamente giustiziato da Pyongyang); lo smacco a più basso rischio sarebbe intercettare e abbattere uno dei missili che Kim testa periodicamente (però gli Stati Uniti dovrebbero schierare la Settima Flotta del Pacifico, che ha già diversi problemi di organico e funzioni, costantemente davanti al Nord per tenere attivi le navi da difesa aerea: sarebbe oltretutto molto dispendioso). Sull’ultimo punto: e che cosa accadrebbe se – circostanza non da escludere – l’intercettazione americana non andasse a buon fine? Kim se ne vanterebbe e Washington rischierebbe di restare col naso sanguinante.

In piedi, più che mai, la via diplomatica si diceva; sostenuta da sempre dal Pentagono e dal dipartimento di Stato, nell’ultimo twist del presidente sembra riprendere interesse. Dopo l’avvicinamento olimpico, Jonathan Powell, ex capo di gabinetto del primo Ministro britannico Tony Blair, ha offerto le sue capacità diplomatiche per cercare di ampliare il dialogo, hanno detto tre fonti al WSJ. E Jeffrey Feltman, diplomatico americano che ora ricopre il ruolo di segretario generale delle Nazioni Unite per gli affari politici, di recente ha viaggiato in Corea del Nord per esplorare le vie negoziali. Da sottolineare che comunque al ritorno Feltman è stato piuttosto pessimista; Kim ormai ha la Bomba, diceva, ci si ragiona male (essenzialmente: non sarà mai disponibile ad accettare la sospensione del programma atomico). Washington sta cercando di inserirsi anche come mediatore nel processo aperto dalle Olimpiadi: vuole evitare che i contatti tra le due Coree creino un cuneo di distacco con Seul, e per questo chiede di partecipare a (eventuali) incontri futuri. Lo ha fatto sapere per primo il dipartimento di Stato, che però è ai ferri corti con la Casa Bianca perché il segretario da mesi non è più nelle grazie di Trump, forse anche perché troppo morbido sul dossier nordcoreano: “Sta perdendo il suo tempo”, diceva Trump soltanto tre mesi fa a proposito della via negoziale richiesta dal capo di Foggy Bottom.

 

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