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Perché investire sul piano Calenda-Bentivogli per la crescita

Nel solco di una campagna elettorale che si concentra sulle promesse e sui personalismi, di Carlo Calenda hanno fatto più notizia venerdì le dichiarazioni su Roma e sul suo sindaco che il lungo articolo, a doppia firma con Marco Bentivogli, apparso sul Sole 24 Ore con un ricco ventaglio di proposte di politica industriale per l’Italia del dopo-elezioni.

Il “Piano industriale per l’Italia delle competenze” di Calenda e Bentivogli rappresenta la fase 2 di Industria 4.0, il provvedimento voluto dallo stesso ministro nel settembre 2016 e già in parte implementato con le leggi di bilancio del 2017 e del 2018. E ne rivendica giustamente i risultati preliminari, già emersi nella ripresa degli investimenti privati, in gran parte alimentata da iperammortamento e superammortamento. Anche se, dato che una rondine non fa primavera, non possono bastare i risultati di un anno per invertire un trend pluridecennale, che precede la crisi del biennio terribile 2007/2008, di scarsi investimenti in capitale fisico e umano e bassa produttività.

Dunque, ben vengano le nuove proposte, articolate in sei priorità (impresa 4.0, lavoro 4.0, energia, concorrenza, banda larga e politiche commerciali e internazionalizzazione) e in larga parte condivisibili. Qualche dubbio rimane sulla effettiva realizzabilità di alcune misure, ad esempio l’obiettivo di almeno 100.000 studenti iscritti agli Istituti Tecnici Superiori entro il 2020 (considerando che oggi sono appena 9.000). Non è tanto una questione di soldi (i 400 milioni di euro aggiuntivi all’anno evocati da Calenda e Bentivogli) ma di pastoie burocratiche che potrebbero rallentare un incremento così significativo della capacità di offerta del sistema (posto che ci sia una domanda così reattiva).

Il punto da approfondire di più, a mio avviso, è probabilmente la proposta di un modello di sviluppo della banda ultralarga ricalcato su quello delle reti energetiche, basato su un unico operatore “wholesale”, terzo e neutrale rispetto alle imprese che si fanno concorrenza nel mercato rivolto ai clienti finali, che si vede coprire i propri investimenti grazie a un regime tariffario, dunque alle bollette pagate dai consumatori. Il piano di Calenda e Bentivogli approccia prudentemente questo aspetto (si tratta di “verificarne la possibilità….valutando con tutte le cautele del caso”) ma certo le difficoltà da superare non paiono di poco conto (anche perché gli obiettivi europei sono dietro l’angolo e non possiamo permetterci di trascorrere il tempo che ci rimane per conseguirli in polemiche che sarebbero non solo sterili ma anche dannose, in quanto non farebbero che aumentare l’incertezza degli operatori che stanno investendo miliardi di euro). In primo luogo, escludendo fin da subito la possibilità di espropri, che infatti non viene in alcun modo evocata, si tratta di convincere gli operatori, dunque in particolare Tim, società privata a tutti gli effetti, a cedere la propria rete o comunque a farla confluire in un soggetto comune con Open Fiber, il player infrastrutturale, che ha come azionisti Enel e Cassa Depositi e Prestiti, costituito con l’obiettivo di portare la fibra ottica su tutto il territorio nazionale (aree a fallimento di mercato incluse).

Inoltre, il regime tariffario, che vige in altri servizi a rete come l’energia e i servizi idrici, si basa su tre elementi essenziali: 1) l’impossibilità di una effettiva concorrenza infrastrutturale; 2) un grado di innovazione limitato e prevedibile; 3) mercati finali “captive”, cioè privi di scelte alternative di carattere infrastrutturale, sui quali può dunque essere facilmente ribaltato il costo degli investimenti per costruire e gestire le reti. In realtà, il secondo e il terzo fattore si sono parzialmente rilassati, almeno in linea teorica, negli ultimi anni per le reti elettriche, in particolare quelle a bassa tensione, ma nella pratica tengono ancora. Non così sarebbe per la banda ultralarga, dove la concorrenza tra le reti è possibile e non è affatto detto sia solo un elemento di spreco o di inutile duplicazione, la tecnologia evolve molto più rapidamente e in direzioni che potrebbero essere difficilmente prevedibili e almeno in parte contraddittorie con scelte fatte in un passato anche recente. E infine i consumatori  possono più facilmente che in altri servizi staccarsi dalla rete (come già è accaduto negli ultimi anni, finendo per concentrare i costi tariffari su una classe meno ampia rispetto alla popolazione delle famiglie e delle imprese).

Detto delle proposte contenute nel piano, ci sono poi altri due aspetti sui quali vale la pena concentrarsi ulteriormente. In generale, il focus principale sembra essere la fabbrica tradizionalmente intesa (sia pure in versione digitale) a cui si potrebbero aggiungere i laboratori di ricerca da un lato e il mondo delle start-up dall’altro. Due ambiti nei quali l’Italia fa un’enorme fatica in termini finanziari e di risultati concreti ma che, d’altronde, appaiono irrinunciabili se vogliamo vivere, anche a livello industriale, la sfida digitale da protagonisti e non da comprimari.

Sulla R&S, non basta concentrarsi sulla ricerca applicata, sulla quale peraltro occorre spingere le aziende ad investire molto di più di quanto hanno storicamente fatto, ma occorre riorganizzare la ricerca di base, a partire dal sistema pubblico degli enti di ricerca e delle università. E in una prospettiva necessariamente europea, per arrivare a un’Unione della ricerca che possa garantire quella massa critica, specie nelle tecnologie chiave, come l’intelligenza artificiale, che l’Europa (figuriamoci l’Italia) non ha ora e non potrà avere in futuro alle condizioni date. L’unico leader continentale che sembra essersene accorto è il presidente francese, Emmanuel Macron. Occorrerebbe battere un colpo anche dall’Italia e quale migliore occasione di una campagna elettorale combattuta con le armi della riflessione e della serietà, oltre che degli slogan e delle boutade?

Quanto alle start-up, si è lavorato molto negli ultimi anni, a partire dalla legge del 2012. Ma al di là dei tanti convegni e dei dati che testimoniano una crescita esponenziale delle aziende iscritte all’apposito registro, di imprese innovative che ce l’abbiano davvero fatta se ne contano pochissime. E nessuna è neppure lontanamente paragonabile alle grandi start-up d’Oltreoceano (ma anche alle migliori del Vecchio Continente). Anche in questo caso, appare fondamentale una prospettiva europea, che peraltro potrebbe aiutarci a risolvere la principale questione alla base (fin qui) degli insuccessi italiani, quella di un mercato del venture capital e più in generale di una finanza a supporto delle start-up ancora del tutto asfittica.

Per chiudere, il “Piano industriale per l’Italia delle competenze” è certamente un potente sasso nello stagno angusto e poco profondo della campagna per le elezioni del 4 marzo. Ma, perché possa diventare un programma economico di un futuro governo, deve mettersi nella condizione di intercettare non solo i distretti e le fabbriche ma anche le città, che sono – e sempre di più saranno – il perno della conoscenza e dell’innovazione. E occorre fare continuo riferimento all’Europa, l’unica dimensione in grado di traghettare non solo l’Italia ma ciascuno degli Stati Membri verso le sfide del futuro, con una concreta possibilità di lasciarvi una traccia di una qualche significatività, accanto all’Asia e agli Stati Uniti. Un programma non vasto ma vastissimo. Che conterà sull’apporto di persone come Carlo Calenda e Marco Bentivogli e, ci auguriamo, anche di tanti altri in Italia e in Europa.

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